IL TESTAMENTO DEL PORCELLO
Nel “Testamento del porcellino” (ANONIMO IV secolo d.C.), il protagonista, in un
susseguirsi di formule notarili infarcite di ironia amara e di comicità, detta le sue ultime
volontà prima di passare sotto le mani del cuoco e indica i destina-tari di ogni parte del suo
corpo.
La patetica umanizzazione dell’animale sta tutta dentro la sua vasta possibilità d’uso in
cucina; i modi di impiego sono molteplici e all’insegna, come sempre, di una sconfinata
producibilità di esiti gastronomici. Siccome è dimostrato, tra l’altro, che l’occhio vuole la
sua parte, si afferma come una costante dell’attenzione dei cuochi quella di mantenere
integra, se possibile, la fattezza “fisionomica” del maiale anche quando viene servito a
tavola; da ciò proviene l’adozione del ripieno quale piatto capace di dare al tratto
scenografico il tocco della credibilità senza appesantire o impoverire le ragioni del palato.
Incomincia il testamento del porcellino.
Il porcellino Marco Grunnio Corocotta ha fatto testamento.
“Poiché non ho potuto scriverlo di mio pugno, l’ho dettato perché fosse scritto”.
Il cuoco Magiro ha detto: «Vieni qui, sovvertitore della casa, sconvolgitore dell’aia,
porcellino che sempre fuggì, oggi ti tolgo la vita».
Il porcello Corocotta disse: «Se ho fatto qualcosa, se ho rotto con i piedi qualche vasetto, ti
prego, signor cuoco, ti chiedo la vita, concedila a me che ti prego».
Il cuoco Magiro chiamò: «Vieni, garzone, portami un coltello dalla cucina, affinchè io possa
sgozzare questo porcello».
Questo viene catturato dai servi, condotto verso il sedicesimo giorno prima delle Calende
lucernine (verso la metà di novembre), quando abbondano i cavoli, sotto il consolato di
Clibanato e Piperato. E non appena capì che stava per morire, chiese un’ora di tempo e
pregò il cuoco di poter fare testamento: fece chiamare a sé i suoi parenti, per lasciare a
loro in eredità le sue parti da mangiare.
E così egli disse:
«A mio padre Verrino dispongo siano lasciati trenta moggi di ghiande e a mia madre
Veturina Scrofa quaranta moggi di fior di farina spartana, a mia sorella Quirina, alle cui
nozze non ho potuto partecipare, trenta moggi d’orzo. E delle mie viscere donerò le setole
ai calzolai, le mascelle ai litiganti, le orecchie ai sordi, la lingua agli avvocati e ai parolai, le
budella ai salsicciai, le cosce ai rosticceri, i rognoni alle donne, la vescica ai bambini, i
garretti agli schiavi cursori e ai cacciatori, le unghie ai ladroni e al cuoco innominabile
lascio il mestello e il pestello che avevo rubato: da Tebeste fino a Trieste possa egli legarsi
il collo (impiccarsi) con una fune.
E voglio che sul mio monumento sia scritto: «II porcello M. Grunnio Corocotta visse 999
anni e mezzo; se ne avesse vissuto ancora mezzo, avrebbe compiuto mille anni».
Miei ottimi estimatori e voi che vi prendete cura di me, vi chiedo di fare buone cose con il
mio corpo, che condiate bene con buoni condimenti di noce, pepe e miele, affinchè il mio
nome sia ricordato in eterno.
Signori miei e miei cugini, che avete assistito al mio testamento, fate firmare».
Firmarono: Lardoso, Braciolino, Speziale, Salsicciotto, Prosciutto, Celsino e Nuziale.
Finisce qui il testamento del porcello verso il giorno sedicesimo delle Calende lucernine,
felicemente sotto i consoli Clibanato e Piperato”.
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