Etiopia, dura repressione dei contadini che difendono la propria terra
Un mare di voci che si solleva in un coro: un mare di braccia incrociate sopra la testa, a mimare le manette e le catene in segno di protesta. Era cominciata così la tradizionale festa religiosa di Irrechaa, in cui la popolazione Oromo rende grazie alle forze divine per la benevolenza e i doni ricevuti durante l’anno. Poi l’intervento della polizia e delle autorità governative, le urla, i lacrimogeni, il panico. La folla in fuga che si accalca, si travolge, si schiaccia. E l’acqua del lago Harsadi che comincia a incresparsi per i corpi che cadono dalle scarpate.
Sappiamo che sono contadini: una professione che impegna l’85% della forza lavoro nazionale. Sappiamo che il governo di Addis Abeba mira a espropriare le loro terre, sia per un progetto di estensione dell’area urbana della capitale, progetto per il momento ritirato, sia per convertire le piccole produzioni familiari, che ora coprono il 95% del settore agricolo, in agricoltura su larga scala, vendendo grandi appezzamenti a gruppi stranieri (con paesi come India, Turchia, Pakistan, Cina, Sudan e Arabia Saudita) o multinazionali che occupano il restante 5%. La ragione ufficiale è, secondo le fonti governative, l’obiettivo di sollevare la popolazione dal suo stato di povertà: di fatto però, in questo modo gli etiopi non solo vengono privati della proprietà della loro terra, ma vengono costretti a reimpiegarsi come dipendenti verso gli stessi gruppi che l’hanno acquisita con il favore dello Stato.
È proprio per protestare contro questa violazione gravissima che gli Oromo fanno sentire da anni la loro voce, incontrando dalle autorità risposte sempre più dure e violente. Per questo purtroppo non sorprende la ricostruzione secondo la quale sarebbe stata la polizia, usando prima lacrimogeni e poi proiettili di gomma, a scatenare il panico tra i manifestanti pacifici. Non dopo che, pochi mesi fa, l’atleta olimpico etiope Feyisa Lilesa aveva incrociato a sua volta le braccia a Rio de Janeiro nello stesso gesto dei suoi connazionali, facendo risuonare anche in Brasile l’eco della loro protesta. «Il governo Etiope sta uccidendo il mio popolo. La mia famiglia è in prigione, e se parliamo di diritti veniamo uccisi»: sono state queste le sue parole, a cui è seguita la richiesta di asilo agli Stati Uniti d’America. Perché come lo stesso Feyisa ha detto, «Se torno in Etiopia forse mi uccideranno, o mi metteranno in prigione».
Forse non sapremo mai quali sono i confini precisi tra la luce e l’ombra in un conflitto che si sta trasformando in una guerra, ma qualcosa lo sappiamo, qualcosa che lavorare in quella terra, con quelle persone, ci ha insegnato. Sappiamo che la terra appartiene a chi la lavora con cura e con amore giorno dopo giorno; sappiamo che Slow Food non interromperà il proprio impegno sul territorio attraverso progetti come la rete dei Mieli d’Etiopia, i 10.000 orti in Africa e i Presìdi etiopi; sappiamo che saremo sempre dalla parte di quella moltitudine silenziosa che il conflitto per la sovranità alimentare e agricola lo perde giorno dopo giorno contro l’interesse e il potere di pochi. Perché il diritto di vivere in pace della generosità della terra vale più di qualunque profitto.I Presìdi Slow Food in Etiopia
Fonti: Paolo Tosco slowfood.it, Financial Times Investigations, Human Rights Watch, Internazionale
Foto: geeskaafrika.com; Paola Viesi
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