La storia della polenta

Agli inizi del 1600 in molte zone di campagna e di montagna i prodotti provenienti “dalle Indie” (così come venivano chiamati i nuovi cibi scoperti con la conquista delle Americhe) non erano ancora conosciuti; eppure la storia della polenta inizia già diversi secoli prima

La prima polenta della storia

Gli antichi Romani ad esempio preparavano la puls, una polentina che costituiva il rancio quotidiano dei legionari e che veniva preparata con farina di ceci, fave, lenticchie, farro. Più di recente nelle valli piemontesi si preparavano diversi tipi di potìe, una via di mezzo tra una minestra e una polenta, perchè preparate con una quantità di farina scarsa rispetto all’acqua o al latte; un piatto dei giorni di lavoro, che veniva trasportato in alta montagna durante la fienagione e che era in origine a base di grano saraceno, e, dopo la scoperta dell’America, di mais e zucca. Con qualche differenza nel nome le ritroviamo un po’ in tutto il Piemonte: nella zona di Alba e Cortemilia si preparava la “pucia”, una polenta morbida a base di farina di grano e di mais condita con cavolo e pezzi di carne; nell’alessandrino si mangia ancora la “pute”, sostanzialmente uguale alla pucia, mentre nel basso canavese troviamo la “putia” alla quale si aggiungono la zucca e il riso; in val d’Ossola la “pute” è insaporita con burro e toma, mentre il “puut” del Monferrato era ancora più povero, semplicemente cotto nel latte come un semolino e privo di condimenti.

La polenta dal medioevo a Cristoforo Colombo

La storia della polenta continua nel medioevo, quando ritroviamo diverse versioni di queste “polente”: d’avena e orzo, di grano saraceno (come quella ricordata dal Manzoni nei promessi sposi, dove Renzo, recatosi dall’amico Tonio “lo trovò in cucina che […] dimenava, col matterello ricurvo, una piccola polenta bigia, di grano sarqaceno”), di miglio, che avevano già aperto la strada all’arrivo della farina di mais che giungeva dal nuovo mondo. In realtà c’è chi sostiene che il mais (mahiz come lo definì Cristoforo Colombo sul suo giornale di bordo) venisse coltivato in Europa già molto tempo prima della scoperta dell’America, importato dalla Persia da alcuni viaggiatori tedeschi che lo avrebbero portato in Francia (da qui il nome di “grano turco”). In Italia il primato di aver avviato le prime coltivazioni di mais spetta al Veneto, ma ben presto questo alimento si rivela una preziosa risorsa per la scarsa dieta invernale degli abitanti della montagna e della campagna. Insieme a patate e castagne diviene quindi, anche in Val di Susa, perno dell’alimentazione quotidiana. Entro la fine del XVII secolo anche nella nostra valle si diffonde la coltura di questa pianta, che presenta un duplice vantaggio: è facile da coltivare e dà raccolti abbondanti. Dal 1700 in poi la polenta di mais soppianta quindi gli altri tipi di polenta e diventa cibo di tutti i giorni per molte popolazioni sopratutto nelle valli alpine.

La farina di mais era un prodotto di scambio, i fusti e i tutoli venivano bruciati e le foglie si usavano per riempire i sacconi del letto.

Il successo della polenta

La polenta costava molto meno del frumento e si poteva consumare sia calda che fredda, accompagnandola praticamente con tutto, ma sopratutto saziava! D’estate le donne portavano polenta con latte agli uomini impegnati nella fienagione, d’inverno i bambini ne infilavano qualche fetta nella cartella con noci e castagne. Disprezzato dai padroni, il mais non rientrava nei patti di affittanza e al contadino spettava l’intero raccolto, quindi un buon motivo per coltivarne in abbondanza. Con la farina di mais poi si potevano preparare anche pane e dolci; un detto piemontese recitava: “La polenta a fa quat bin, a serv da mnestra, a serv da pan, a ‘mpiniss la pansa e a scauda le man” (la polenta fa bene quattro volte, serve da minestra, da pane, riempie la pancia e scalda le mani). In dialetto piemontese il mais diventa “meliga”, parola che deriva da “melia” o “meria”, cioè sorgo, per la somiglianza delle due piante.

Saper preparare la polenta era una delle doti richieste ad una ragazza da marito: nel paiolo di rame appeso sul focolare in cucina si metteva a bollire l’acqua, alla padrona di casa spettava il diritto di menare la polenta, si versava la farina prima che l’acqua iniziasse il bollore (rigorosamente con la mano sinistra), poi, con la mano destra (la stessa con cui si fa il segno della croce), si mescolava, in senso rotatorio, con movimenti rapidi e per una sessantina di minuti almeno. La polenta era pronta quando prendendone un mezzo cucchiaio col palmo della mano, si sfregava e si formava una pallina soda e non appiccicosa; la si ribaltava allora sul tagliere di legno e la si affettava con un filo bianco. Nel paiolo rimaneva una crosta sottile e croccante, che si staccava perfettamente e non veniva assolutamente buttata.

Come si cucinava la polenta

Nella storia della polenta gli abbinamenti più comuni erano con burro e formaggio (polenta concia) o con salsa di pomodoro insaporita con cipolla, prezzemolo e aglio. Non mancavano gli abbinamenti dolci, con cognà d’uva o confettura di susine, oppure, in una versione più morbida, con il latte rappresentava molto spesso l’unica pietanza del pasto serale. Quella che avanzava veniva abbrustolita o fritta nel burro e serviva da contorno.

Solo raramente e nei giorni di festa si poteva gustare con un brasato o uno spezzatino, un civet di selvaggina, pollo alla cacciatora, lepre in salmì o ciccioli di maiale, oppure con lo stoccafisso.

Per trovare ispirazione su come cucinare la polenta puoi provare: