La gastronomia Campana si distingue per il suo grande rispetto delle antiche tradizioni impiantate e tramandate da grandi popolazioni come i Greci che hanno sicuramente lasciato un impronta importante. La pasta è certamente la bandiera della cucina Partenopea e il Ragù è l’inno che l’accompagna! I secondi piatti della tradizione Partenopea risentono moltissimo dell’influenza marittima ma, allo stesso tempo, propongono delle preparazioni di carne molto gustose che provengono dall’entroterra campano. Ovviamente, i piatti più celebri sono quelli che fanno parte della cucina marittima come: l’ “impepata di cozze“, i “polpetielli (polpi) affogati“, i “polpi alla luciana” (così chiamati dal nome degli abitanti del borgo di Santa Lucia, esperti nella preparazione di questa ricetta), i “calamari ripieni“, le “alici in tortiera“, l’ “anguilla marinata” ed il celebre “capitone alla marinara“.

Ma vediamo insieme alcune specialità campane

Mozzarella di Bufala Campana
La storia della Mozzarella di bufala campana ha origini antiche. Furono i Re Normanni, intorno all’anno Mille, a portare il bufalo nel continente dalla Sicilia, dove era stato introdotto dagli Arabi. Fin da allora il latte delle bufale campane è stato destinato alla produzione della mozzarella. Ma la prima testimonianza scritta in merito risale al XII secolo, e si deve ai monaci di San Lorenzo in Capua, che usavano offrire una ‘mozza’ o ‘provatura’ ai pellegrini che si recavano ogni anno in processione al loro monastero. Il termine mozzarella rimanda alla tecnica originaria di lavorazione di questo formaggio, che prevedeva la ‘mozzatura’ a mano, tra indice e pollice, della pasta filata.

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Il più delle volte la Mozzarella di bufala si consuma fresca, quando invece è utilizzata in cucina, va tolta dall’acqua e tenuta per alcune ore nel frigo, affinché possa separarsi dall’acqua in eccesso e guadagnare la giusta consistenza. Generalmente ha un aspetto tondeggiante, ma può cambiare forma, dimensioni e peso (da 20 a 800 grammi) a seconda della zona di produzione: ne esistono varietà a bocconcino, a treccia, a perlina, a ciliegina e a nodino. La
crosta è sottilissima e di colore bianco porcellanato, mentre la pasta non presenta occhiature ed è leggermente elastica nelle prime otto-dieci ore dalla produzione, e poi sempre più fondente. All’assaggio la Mozzarella di bufala campana si presenta con profumo di fermenti lattici vivi del latte intero di bufala e un vago sentore di muschio. La Mozzarella di Bufala può essere anche affumicata, ma solo con procedimenti naturali e tradizionali, e in tal caso la denominazione di origine deve essere seguita dalla dicitura ‘affumicata’.

Carciofo di Paestum
La diffusione del carciofo nella valle del Sele risale alla fine degli anni ’20 grazie alle vaste opere di bonifica e di profonda trasformazione agraria apportata dalla riforma fondiaria, anche se da sempre la presenza di condizioni pedo-climatiche particolarmente propizie ha favorito la coltivazione del carciofo in questa area. Tracce della presenza del carciofo nella piana del Sele sono segnalate già nel 1811 dalle statistiche del Regno di Napoli.

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Il Carciofo di Paestum si distingue per la tenerezza e la delicatezza dei capolini in particolare alla parte basale delle brattee e per il sapore molto gustoso.

Friarielli
Ovvero cime di rape. Dove per “cime” s’intendono gli ammassi fiorali, le infiorescenze non ancora aperte, delle rape. In una parola, i broccoletti. In Italia, a questo alimento s’interessavano in tanti (specie al Sud terra povera): chi li lessava, chi li cuoceva. I Toscani le chiamavano affettuosamente “rapini”, i baresi li cucinavano con le orecchiette. Questa abitudini sono vive ancora oggi, in quelle terre.

Friarieli
A Napoli no. A Napoli, le cime di rapa prima si lavano, e poi, tutte bagnate, si gettano nell’olio. Con il loro sacrificio danno vita ad uno dei piatti più creativi della cucina partenopea: i friarielli. Le cime di rapa cotte nell’olio.

Limone Costa d’Amalfi
La coltivazione del limone in costiera amalfitana ha prevalso col tempo su tutte le altre della zona, svolgendo un ruolo fondamentale per l’economia locale e anche per la caratterizzazione del paesaggio. La presenza del limone in questa splendida area a picco sul mare è documentata fin dall’XI secolo, quando, scoperta la sua efficacia nel combattere la carenza di vitamina C nell’organismo, la Repubblica di Amalfi decretò che a bordo delle navi ci fossero sempre provviste di tali frutti. Ciò incentivò l’impianto di limoneti tra il XII e il XIV secolo in spazi sempre più vasti del litorale e delle colline limitrofe.

Limone Costa D'AmalfiAl Seicento risalgono invece le prime testimonianze di un diffuso mercato di limoni, che progredì nei secoli successivi, a opera di commercianti provenienti da altre zone, che acquistavano la quasi totalità della merce. Il Limone Costa d’Amalfi ha un succo abbondante di elevata acidità.

Pomodorino del Piennolo del Vesuvio
Il Pomodorino del Piennolo del Vesuvio Dop, piccolo ortaggio ma dal grande sapore è una vera gemma rossa della tavola campana. Trae le sue peculiarità organolettiche dall’origine vulcanica dei suoli dove è coltivato. Infatti la natura piroclastica dei terreni contraddistingue l’intero edificio vulcanico del complesso Somma-Vesuvio, zona indicata per la produzione. La coltivazione di questo ortaggio si affermò durante i secoli scorsi, sia per le ridotte esigenze colturali che in virtù della consistenza della buccia, che lo rende particolarmente idoneo alla lunga conservazione nei lunghi mesi invernali. L’antica diffusione del pomodoro conservato era infatti legata, alla necessità di
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dover disporre anche nella stagione fredda di pomodoro allo stato fresco, per poter adeguatamente insaporire le preparazioni domestiche, da sempre molto diffuse nel napoletano, fra cui pizze e primi piatti che chiedevano intensità di gusto e di fragranze. Questo antico procedimento di conservazione consiste nella raccolta delle bacche a grappoli interi e nell’intreccio dei piccioli con un filo di canapa, fino a comporre un unico grande grappolo che viene poi sospeso al soffitto di appositi locali, per tutto l’inverno. Tutto ciò, unito al particolare quadro ambientale dell’area vesuviana hanno portato ad un prodotto unico nel suo genere per pregi organolettici. Ha un sapore vivace, intenso e dolce-acidulo. Se consumato conservato il sapore rimane vivace ed intenso.

Pomodoro S. Marzano dell’Agro Sarnese-Nocerino
Il pomodoro, proveniente dal Guatemala, approdò in Italia grazie a Hernan Cortès, conquistatore spagnolo dell’impero Azteco (per conoscere la storia del Pomodoro clicca qui). Inizialmente nel nostro paese fu accolto con molta diffidenza poiché era ritenuto un ‘frutto malefico’. L’inizio della sua fortuna cominciò invece nel ‘600, grazie agli Estensi, che ne fecero distribuire gratuitamente i semi ai contadini. La straordinaria adattabilità al clima italiano del pomodoro si riscontrò già durante la Rivoluzione francese. Ma la prima piantina di pomodoro San Marzano è apparsa sul territorio campano solo nei primi anni del XIX secolo e ha preso il nome dall’omonimo paese ‘San Marzano sul Sarno’, in provincia di Salerno.

Pomodoro S. Marzano dell'Agro Sarnese-NocerinoSecondo l’ipotesi più accreditata, questo tipo di pomodoro nacque in questa zona da una mutazione naturale o da un incrocio spontaneo tra altre due varietà locali, la Fiaschella e la Fiascone. Ancora oggi il vero San Marzano è molto vicino alla pianticella nata per caso in Campania: i vari tipi odierni sono derivati per selezione naturale dal vecchio progenitore. Uno dei motivi della bontà di questo prodotto può essere forse ricercato nelle condizioni ideali che ne hanno permesso il notevole sviluppo, che vanno dalle caratteristiche vulcaniche del terreno al clima, che risente del benefico influsso del mare.

Prosciutto di Pietraroja
Il prosciutto di Pietraroja, comune della provincia di Benevento, è rinomato da secoli, tanto che in una collezione di stampe dell’archivio del Regno di Napoli il simbolo di questo piccolo paese del Beneventano rappresenta una donna con un prosciutto.

Prosciutto pietraroja

Gli antichi sistemi di lavorazione, il clima caratteristico e la finezza dell’aria di montagna, fanno di questo salume un prodotto unico dall’aroma delicato e inconfondibile. La lavorazione tipica del prosciutto inizia con una rifilatura a mano del coscio, la coscia fresca posteriore del suino, da cui si ottiene il prosciutto. La forma, il giorno dopo viene messa sul tradizionale timpano di legno, concavo e inclinato, dove viene salata e lasciata lì per circa 15-20 giorni. Passato questo periodo, una volta perduta buona parte della sierosità “salamona” e ripulito del sale residuo, il prosciutto viene collocato nella pressa, una sorta di torchio, dove viene schiacciato per quattro giorni e poi sospeso in un luogo fumoso per una settimana, per poi essere pressato ancora per quattro settimane e speziato con pepe nero e peperoncino. Purtroppo, oggi la sua produzione è molto ridotta: si producono poche centinaia di esemplari, per lo più destinate al consumo familiare.

Colatura di alici di Cetara
A Cetara continua a essere presente nella tradizione culinaria, la colatura di alici. La colatura di alici che viene prodotta a Cetara è un liquido ambrato ottenuto seguendo un antico procedimento che i pescatori del luogo si sono tramandati di padre in figlio.

Colatura alici

 

Si parte dalla tecnica di lavorazione delle alici sotto sale, di cui la colatura è un derivato: le alici appena pescate, in tutto il periodo primaverile, vengono private della testa e delle interiora e poi adagiate in un contenitore, cosparse
di sale marino abbondante per 24 ore. Dopo la prima salatura, vengono messe in una piccola botte, il terzigno, e sistemate con la classica tecnica ‘’testa-coda’’ a strati alterni di sale. Completato il lavoro, il terzigno viene coperto con un disco in legno, sul quale si collocano dei pesi. Per effetto della pressatura e della maturazione del pesce, il liquido secreto dalle alici comincia ad affiorare in superficie. È questo liquido l’elemento base per la colatura: raccolto progressivamente man mano viene inserito in grandi bottiglie di vetro ed esposto a fonte di luce diretta del sole per circa quattro o cinque mesi, perché evapori l’acqua e aumenti la concentrazione cosicché, in genere fra la fine del mese di ottobre e gli inizi di novembre, tutto è pronto per l’ultima fase: il liquido raccolto e conservato viene versato nuovamente nel terzigno dove le alici sono rimaste in maturazione. Così, colando lentamente attraverso i vari strati dei pesci, ne raccoglie il meglio delle caratteristiche organolettiche. Viene recuperato attraverso un foro praticato appositamente nel terzigno, trasferito in un altro recipiente e filtrato con l’uso di teli di lino, chiamati cappucci. Il risultato finale è un distillato limpido di colore ambrato carico, quasi bruno-mogano, dal sapore deciso e corposo che a Cetara è il tradizionale condimento per gli spaghetti delle vigilie, oltre che per le bruschette, i broccoli di Natale e altre verdure: tradizionalmente considerato un cibo povero, sostitutivo del pesce fresco, oggi è un condimento ricercatissimo e apprezzato a tutti i livelli.

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