Cotolette di pesce San Pietro

Arrivammo a Venezia una mattina di luglio. Ad attenderci, a Piazzale Roma, due cari amici di mio padre, Bruno e Lionella, che affettuosamente chiamavamo Lì, mancava la Luisa, il trio era incompleto. I “veneziani” erano soliti trascorrere le vacanze estive a Carloforte, ospiti della mia famiglia. I miei genitori mettevano a loro disposizione la nostra casa in paese, noi, come ogni estate, ci trasferivamo alla casa al mare.

Percorremmo calli e calette, un dedalo di viuzze strette, incassate tra due file di edifici, la loro ombra dava ristoro. Seguendo le nostre guide esperte, che non perdevano occasione di descrivere la bellezza della Serenissima, uscimmo da quel labirinto. Arrivammo in Campo San Polo, l’ampia piazza era inondata dal sole. Al primo piano di una vecchia palazzina che affacciava sulla Basilica dei Frari, la casa del maestro Boccanegra.

Ci accolse la Luisa, la meno loquace dei tre. Preferiva restare in disparte, concentrata sulla Settimana Enigmistica a risolvere rebus e cruciverba. Era rimasta a casa a preparare il pranzo, la cosa mi sorprese alquanto. Il ruolo di cuoca non le calzava affatto, non amava dilettarsi ai fornelli e i suoi piatti erano un po’ come lei, discreti. Dalla sua cucina aveva bandito aglio e cipolla e anche erbe e aromi erano usati con molta parsimonia. Dopo i soliti convenevoli le offrimmo una mano d’aiuto.

Quella mattina, al mercato del pesce a Rialto, aveva acquistato dei filetti di san pietro, un pesce pregiato, privo di lische. Estrasse dal frigo il cartoccio e lo aprì con cura. Sciacquò i filetti, li tamponò delicatamente, li passò nella farina, poi, dopo averne eliminato l’eccesso, li immerse nell’uovo sbattuto e infine nel pangrattato. Le sue mani esili premevano con i palmi per far si che la panatura aderisse su entrambe i lati. Finita la preparazione si trasferì ai fornelli.

In un’ampia padella di ferro mise abbondante burro e tenendola per il manico iniziò a rotearla e quando il grasso diventò spumeggiante vi immerse i filetti, pochi per volta. Il calore del fuoco le arrossava il viso, in genere pallido, sorrideva e ogni tanto partecipava alla conversazione, senza mai perdere di vista la sua preparazione. Con estrema delicatezza rigirò i filetti e quando assunsero un bel colore dorato, li  estrasse aiutandosi con una paletta  e li mise a sgocciolare su buste di cartastraccia. Trasferì le fragranti cotolette d’oro sul piatto da portata ovale e trionfante portò in tavola.

Gustammo quel piatto fumante con solo un pizzico di sale, senza limone, in purezza. Fu un’esperienza culinaria sublime mai gustata prima. Il pesce fritto da noi non si sfiletta, scegliamo in genere esemplari di piccola taglia, triglie, donzelle o al massimo trance di murena e dopo averli semplicemente insemolati li friggiamo in olio di semi. Un tipo di cottura semplice, la semola a contatto con l’olio bollente crea una crosticina croccante molto gustosa ma non protegge gli ingredienti durante la frittura.

La panatura invece ha un ruolo molto importante, che è quello di avvolgere l’ingrediente, isolarlo e proteggerlo per preservarne la bontà ed evitare che si inzuppi d’olio compromettendo la buona riuscita del piatto. Capii subito l’importanza di quei passaggi, la polpa del pesce al taglio appariva candida quasi opalescente.

Quel piatto, di una semplicità disarmante mi conquistò al primo assaggio ed entrò con tutti gli onori nel mio ricettario. Appena tornammo a casa chiesi a mio padre di acquistare un bel pesce, lo sfilettai e vi assicuro che allora non fu un’impresa semplice, non avevo i coltelli adatti, ero alle prime armi, oggi sono sicuramente più brava e veloce.

Mia madre mi ronzava intorno, scuoteva la testa contrariata, non concepiva tutto quel lavoro ma soprattutto non sopportava che parti pregiate, come la testa, di cui lei andava ghiotta, andassero sprecate. Cercai di rassicurarla dicendo che con gli scarti avrei preparato un risotto squisito. Non fu facile convincerla, lei era saldamente ancorata alle ricette della nostra tradizione.

I pesci pregiati, soprattutto di dimensioni importanti amava servirli interi, cotti alla brace o in forno oppure lessi con contorno di patate. Il piatto piacque e quando mio padre, al mercato trovava il pesce san pietro non se lo lasciava certo sfuggire. Anche alcuni amici pescatori venuti a conoscenza della sua ricerca glielo tenevano da parte quando finiva nelle loro reti.

Luisa quel giorno mi regalò una ricetta e una lezione di cucina. Nel soggiorno entrava una brezza leggera, Bruno stappò una bottiglia di Tocai, che aveva messo in fresco per l’occasione, finalmente poteva ospitare la figlia del suo amico Carlo. Si erano conosciuti negli anni 50. Mio padre aveva lasciato Carloforte e si era trasferito a Venezia per frequentare l’Università di lingue e letterature straniere di Cà Foscari.  Nel tempo libero giocava a bocce, sui campi in terra battuta aveva conosciuto Bruno, un insegnante di scuola elementare. Ne era nata una bella amicizia, che rimase salda negli anni.

Si tennero sempre in contatto anche quando mio padre fece ritorno al paese. Ogni estate Bruno e la moglie, con qualche amico al seguito, venivano a trovare la mia famiglia. Fu così che conoscemmo la Lì, la mitica maestra Berlin, che con i suoi modi garbati conquistò tutti. Divenne una cara amica e non solo dei miei genitori. Tra noi nacque una profonda intesa, condividevamo molti interessi, primo fra tutti la cucina. Era una donna colta, amava viaggiare, conoscere nuove culture. Dai suoi viaggi intorno al mondo traeva ispirazione, portando ogni estate una novità. Ogni ricetta era preceduta da tutta un’organizzazione che studiava meticolosamente. Spesso fra i tre scoppiavano dei battibecchi, soprattutto tra i due colleghi, le cose non se le mandavano a dire, le sfuriate erano sempre in veneziano stretto “Ciò” Passata la buriana tornava tutto come prima, lei la spuntava sempre e di nascosto mi faceva l’occhiolino.

Conservo tante sue ricette e tanti ricordi.

Il gelato flambè e i suoi occhi scintillanti di gioia nel vedere lo stupore di mia madre, il caloroso applauso che ne seguì.

La polenta mangiata in pieno agosto, fredda naturalmente, accompagnata da baccalà mantecato a mano, si alternavano vicendevolmente attorno a quel tegame d’alluminio per sfaldare la polpa dello stoccafisso (che in veneto chiamano baccalà) e trasformarla in una crema.

Qualche giorno prima della partenza a coronamento della bella vacanza i tre univano le forze e cucinavano insieme la “Paella Valenciana”. Per l’occasione anche Luisa che, in genere trascorreva le sue giornate sul dondolo, all’ombra del pitosporo, scendeva in cucina e si univa alla brigata.

Ogni volta che preparo i filetti di pesce san pietro mi ritrovo lì, sul Canal Grande, in balia dei ricordi

… Sollevammo i calici per un brindisi, il mio sguardo si posò su un quadro, il padrone di casa era un grande appassionato d’arte, trascorreva molte ore nelle botteghe dei pittori veneziani, soprattutto ora che era andato in pensione.

Una robusta catena sorreggeva un dipinto che occupava quasi tutta la parete “ La Basilica della Salute” o meglio, “ La Salute” così la chiamano i veneziani, una delle maggiori espressioni dell’arte barocca veneziana…

La leggenda che spiega l’origine del nome di questo pesce dall’aspetto poco invitante passa in secondo piano, eppure la prima volta che la lessi mi affascinò.

 Immaginavo il Santo pescatore, tirar su le sue reti, afferrare saldamente quello strano pesce tanto da lasciare impressa sul suo corpo l’impronta delle sue dita, le due tacche scure che lo caratterizzano.

INGREDIENTI:

dosi per 4 persone

preparazione 20 minuti

  • 500g di filetti di San Pietro
  • 1 uovo
  • 80g di farina bianca
  • 80g di pangrattato
  • 100g di burro
  • 1 limone
  • sale q.b.

PROCEDIMENTO:

Lavate sotto l’acqua corrente i filetto di pesce e asciugateli con la carta da cucina. In una ciotola sbattete l’uovo con un pizzico di sale.

Disponete su due fogli di carta forno diversi la farina e il pangrattato. Passate i filetti prima nella farina, poi nell’uovo sbattuto e infine nel pangrattato avendo cura di premere bene per far aderire meglio la panatura.

Fate scaldare in una padella il burro, quando è spumeggiante immergete i filetti, cuocendo per 10-15 minuti i fletti rigirandoli, di tanto in tanto, con una paletta.

Sgocciolateli, trasferite su un piatto da portata e servite a piacere.

Consigli: valutate i tempi di cottura anche in base allo spessore del filetto.

Buon lavoro

Vannisa