Il Ragù alla Napoletana

Gnocchi (2)Il ragù alla napoletana e’ sicuramente il mio piatto forte anche se, per motivi di salute ne preparo ormai una versione alleggerita ma altrettanto buona.

Domenica scorsa l’ho preparato secondo i canoni e ci ho condito degli gnocchi di patate che però non ho fatto io ma che ho acquistato .

Il Ragù Napoletano

Il ragù napoletano è una salsa che ha una lunga storia e che ha subito notevoli evoluzioni nel corso del tempo.
L’antenato del ragù napoletano è un piatto molto antico e di tradizione popolare.

Esso deriva da un piatto della cucina popolare medioevale provenzale che aveva nome “Daube de boeuf” e che era uno stufato di carne di bue, parti molto coriacee, mescolate a verdure e cotto lungamente in un recipiente di creta. Questo piatto pare risalga al tredicesimo/quattordicesimo secolo.
Il “ragout”, invece, che è un piatto francese posteriore, è sempre uno stufato con verdure, ma, generalmente, di carne di montone.
Il termine francese ragout deriva dall’aggettivo “ragoutant” che significa allettante, appetitoso o stuzzicante.
Questo tipo di preparazione francese inizia a comparire nella cucina napoletana dal diciottesimo secolo, però come piatto di mense ricche realizzato con carni di manzo o di vitello qualità e ancora senza pomodoro. Di esso parla già Vincenzo Corrado nel suo libro “Il cuoco galante” che risale alla prima metà del settecento. Dello stufato parla anche Ippolito Cavalcanti nelle prime edizioni della sua “Cucina teorica pratica” che risalgono alla prima metà dell’ottocento e cita anche per la prima volta dei maccheroni conditi con sugo di stufato e formaggio grattuggiato.
Nelle edizioni sucessive qualche volta il Cavalcanti parla del sugo di stufato con il nome di “brodo rosso”, senza però citare esplicitamente il pomodoro fra gli ingredienti di cottura dello stufato.
In una delle ultime edizioni infine cita per la prima volta la parola “ragù” riferendosi ai maccheroni nel seguente contesto:
“…li frammezzerai in zuppiera con once 12 di parmigiano grattuggiato e sugo di carne ovvero brodo di ragù”. Ma anche in questo caso non specifica se vi entri o meno il pomodoro.
Dell’uso del pomodoro nel ragù, invece, parla, forse per la prima volta, Carlo Dal Bono che nella sua opera “Usi e costumi di Napoli” risalente al 1857, cosi descrive la distribuzione dei maccheroni da parte dei tavernai.
“Talvolta poi dopo il formaggio si tingono di color purpureo o paonazzo, quando cioè il tavernaio del sugo di pomodoro o del ragù (specie di stufato) copre, quasi rugiada di fiori, la polvere del formaggio”.
La parola ragù, ovviamente, è una deformazione del termine francese “ragout” che rispecchia la sua effettiva pronuncia. Questa è un deformazione tipica del dialetto napoletano che ritroviamo anche nei termini: sartù, gattò, crocchè, purè.

L’acquisizione nel dialetto napoletano di questi termini derivati dal francese, avviene proprio nel periodo a cavallo fra il diciottesimo ed il diciannovesimo secolo quando, sotto il regno di Ferdinando IV di Borbone vi fu una grande influenza della cultura e delle mode francesi nella corte Borbonica.
Ferdinando IV di Borbone era diventato contemporaneamente re di Napoli, col titolo di Ferdinando IV, e re di Sicilia, con il nome di Ferdinando III, alla giovane età di otto anni, a seguito della nomina del padre Carlo come re di Spagna. Aveva poi sposato Maria Carolina di Asburgo Lorena figlia di Maria Teresa d’Asburgo Imperatrice d’Austria. Ferdinando fu spodestato dal regno di Napoli nel 1805 da Napoleone che lo sostituì prima con il fratello Giuseppe e poi con il cognato Gioacchino Murat. Ferdinando fu poi restaurato dal Congresso di Vienna nel 1816, ma per motivi di carattere politico, i due regni di Napoli e di Sicilia furono riunificati nel Regno delle due Sicilie e pertanto Ferdinando assunse il titolo di Ferdinando I Re delle Due Sicile.
A proposito di queste vicende storiche riporto un gustoso epigramma contro il Re scritto da un anonimo siciliano che mal sopportava questa riunificazione che sanciva una subalternità della Sicilia rispetto a Napoli.

Fosti quarto ed insieme terzo,
Ferdinando, or sei primiero:
e, se seguita lo scherzo,
finirai per esser zero.

Durante il periodo fascista, il regime tentò di “italianizzare” il termine, visto come non puramente italiano e quindi non consono al vocabolario fascista, trasformandolo in ragutto.

Comunque, proverò a essere chiaro e spero di riuscire a farmi comprendere. Io penso che non ci sia migliore introduzione per questo tipico sugo napoletano che trascrivere quella simpaticissima poesia di Giuseppe Marotta ad esso dedicata, che fu  stampata in quel suo delicatissimo volumetto “Le Canzoni”:

 ‘O rraù

A me dateme ‘o rragù:

ca fa sempre dummeneca.

Datemello ‘ncopp’a ‘n’asteco

d’ ‘e rrampe d’ ‘o petraro

addò arriva ‘nu sciù-sciù

ca pare ‘e fronne

ma songo ‘e vvoce ‘e Napule ca sagliano,

stanche ‘e saglì.

‘N’ombra ‘e glicine ‘ncopp ‘a tavula

tocca e nun tocca ‘o piatto.

Chi ll’ha fatto

‘stu zuco ‘e rre?

Tu, Maria, tu.

Assettammoce, Padre, Figlio

e Spirito Santo, amen.

Che profumo, ah che delizia.

Neh, Marì, posa ‘a furchetta!

Aspetta.

Passammoce ‘a mano p’ ‘a cuscienza.

Io te voglio bene, te so’ fedele.

E tu?

Pienzece: simmo degne ‘e ‘stu rraù?

 

Anche Eduardo De Filippo, nella commedia «Sabato, Domenica e Lunedì», volle dare una sua ricetta del ragù napoletano.

E come non ricordare quanto scrisse Mario Stefanile su questo «vaghissimo simbolo della più alta mitologia culinaria?» Io non posso trascurare quanto scrisse l’amico scomparso nella scherzosa descrizione che fece del «ragù» in Partenope in cucina, in un piccolo volume che quanti si accingono ad addottorarsi in cucina napoletana dovrebbero  leggere. Colgo anzi l’occasione per ricordare l’amico e questa sua operina  che si esaurì in brevissimo tempo: «l’odor di ragù festeggia le felici nozze fra il pomodoro, distrutto nel tegame con la cipolla soffritta e il bel “filetto” di carne di manzo, lievemente lardellato, e i maccheroni sui quali pioverà la bianca cascata del pecorino piccante o del parmigiano robusto. Ogni casa napoletana lo esala, quest’odore che si leva come una bandiera, non appena da una comune salsa rossa per condirvi alla meno peggio  i maccheroni ma da una lentissima, raffinatissima, perfetta invenzione gastronomica: e a sorvegliare il tegame di creta che su esiguo fuoco sobbolle e crepita è chiamato di solito il membro più anziano della famiglia, dalla lunga esperienza e dalla perfettissima calma, che sa attendere ore e ore che la carne, ben cotta e benissimo insaporita, ceda al suo sugo ogni sua più lieve e segreta fragranza, rosolandosi, braciandosi, cuocendosi fino a diventar tenerissima mentre la salsa si raddensa, si scurisce, perde ogni sua asprezza e ogni crudezza, si fa ricca, vellutata, morbida, pingue: tale insomma da poter sovranamente condire i maccheroni che ora, appena tolti dall’acqua dove hanno acquistato la loro elastica mollezza, di quel sugo si bagnano, s’intridono, si nutrono e di quel sublime odore – l’odor delle mattinate domenicali di Napoli! – si vestono. Una fogliolina di basilico, tolta appena dal vaso sul balcone, su quel rosso fumante piatto di ragù, sui grossi ziti, sui più esili perciatelli, sui bocconcini soffici che sono strozzapreti di quaggiù  (non gnocchi, se pure somigliano, ma più lievi e insieme più consistenti, con più semola).

Son trecento anni, saranno trecento secoli che l’odor di ragù offre e offrirà il benvenuto odoroso di Napoli all’appetito di ogni forestiero».

Sarà bene dir subito che il ragù non è un piatto facile e che perdipiù richiede una lunghissima cottura, il che già di per sé oggi è un handicap, poiché tutti abbiamo molto poco tempo da perdere.

Nella maggior parte delle famiglie, quindi, si chiama ragù un sugo di pomodoro nel quale abbia cotto della carne.

Il vero ragù è quello che si mangiava nelle case delle nostre nonne e che ancora si mangia in casa di qualche buongustaio appassionato, è un piatto piuttosto complesso, che avrebbe bisogno di ingredienti vari e non sempre facili a trovarsi.

Fra questi, a esempio, la conserva di pomodori, un concentrato ristrettissimo che si faceva d’estate, asciugando al sole il succo dei pomodori. Questa spremuta di pomodori ben maturi, soltanto salata, veniva esposta al sole nei giorni più caldi dell’anno, fra agosto e settembre, in grandi piatti, in modo che raggiungesse uno spessore non superiore ai 5÷6 cm. Bisognava poi mescolarla di tanto in tanto e aver cura di riportarla in casa a sera perché  non prendesse l’umido della notte. Quando era ben asciutta, la «conserva» veniva messa in un vaso di creta e coperta con foglie di fico. Non ne riporto la ricetta perché ritengo che a nessuno verrebbe in mente di farla, oggi, tranne che a qualche signora anziana che ha mantenuto questa abitudine, ma si potrà sostituirla con del concentrato molto ristretto.

Sarebbe preferibile iniziare questa preparazione il giorno precedente, in modo da non essere costretti a un’alzataccia, in quanto, per regola, il ragù dovrebbe cuocere per circa sei ore. La pentola di prammatica sarebbe il tegame di creta largo e basso, ma va altrettanto bene un tegame di alluminio   o di acciaio; per rigirare il ragù vi fornirete di una «cucchiarella» di legno.

Questo ragù preparato del giorno prima veniva chiamato «’o rraù d’o guardapurtone», e vi spiegherò cosa c’entri il portiere. Per comprendermi dovete ritornare indietro a quando ancora si cucinava con il carbone, poiché non tutti avevano il gas di città e non esisteva il gas liquido. Allora tutti i palazzi avevano un portiere, che a quell’epoca era un vero cerbero che non permetteva a nessuno di passare senza essersi bene assicurato della sua identità. Essendo costretto a sorvegliare l’ingresso, quindi, il portiere, o la portiera, quando aveva da cucinare qualcosa di lungo lo faceva sulla fornacella portatile, fuori della guardiola. Il ragù, allora, anche nelle famiglie meno ricche, almeno la domenica era di prammatica e quindi il sabato pomeriggio la portineria era invasa dai profumi della carne soffritta, del pomodoro, del basilico e del vino rosso, al cui fiasco il cuoco-portiere attingeva qualche sorso frettoloso, quando pensava di non essere visto. L’odore di ragù, come ho testé ricordato con le parole di Mario Stefanile, invadeva tutto il palazzo e se il «guardaportone» faceva il suo mestiere in una strada molto stretta, si propagava anche oltre.

Questa scenetta popolaresca era molto comune poiché anche nei bassi ci si cimentava col ragù, specialmente il sabato. La sera lo si «tirava» e il giorno dopo lo si faceva «pippiare» ossia lo si faceva sobbollire a fuoco lentissimo finché la carne fosse stracotta.

Gli ingredienti per il ragù possono essere variati secondo il gusto o l’occasione. Se serve soltanto il sugo per condire la pastasciutta si possono utilizzare nervi, grassi e ritagli di carne di seconda scelta; se invece si vuole anche il secondo piatto, bisognerà comprare dei buoni pezzi di carne. Ancora meglio riuscirà il nostro ragù se lo farete con carne mista.

Occorrente

1 kg Girello o prosciutto di maiale

350 gr Cipolle

400 gr Conserva di pomodoro

400 gr Concentrato di pomodoro

Sugna od olio 200 gr

6 Gallinelle di maiale o «tracchiulelle»

¼ di litro Vino rosso, possibilmente di Gragnano.

 Preparazione

Vi è una prima fase di preparazione, come si cantasse il Vespro prima dell’Introito, per la celebrazione di questo sacro rito. Questa consiste nel legare il pezzo di carne qualora non ve l’abbia già preparato il vostro macellaio che in questo caso, prima di raffrenare il pezzo di carne con la cordicella potrà anche provvedere a contornarlo con piccole trance di pancetta. Poggiate quindi la carne sulle cipolle tritate e sul condimento, e mettete la pentola sul fuoco a calore medio. Carne e cipolle rosoleranno insieme: la prima comincerà a fare la sua crosta scura, a chiudersi, come dicono al nord; le seconde devono appassirsi senza bruciare. Per ottenere questo risultato dovete restar lì inchiodati vicino al fornello, tenervi sempre pronti col mestolino di legno, e innaffiare con due dita di bicchiere di vino appena vi sembra che il contenuto della pentola possa bruciare. Le cipolle si devono, come si dice nel linguaggio tecnico, consumare; devono cioè quasi scomparire. Quando la carne sarà diventata di un bel colore marroncino tutt’intorno, sarà venuto il momento di mettere la conserva, che cercherete di sciogliere nel grasso col cucchiaio di legno. Non stancatevi mai di  rigirarle, e se per fare questo mestiere la carne dovesse darvi fastidio, potrete anche temporaneamente accantonarla o toglierla dalla pentola. Vedrete che man mano il grasso verrà in superficie e la conserva diverrà sempre più scura. Quando comincerà ad attaccare sul fondo della pentola, tiratela col vino, o se questo fosse terminato, con poca acqua, e cominciate poi pian piano ad aggiungere delle cucchiaiate di concentrato di pomodoro.  Mentre la conserva è già scura dall’inizio, il concentrato, che è di un rosso vivo, deve anch’esso scurirsi come la conserva. È utile aggiungere che questa fase comporta circa tre ore di lavoro dall’inizio. Quando avrete finito col pomodoro, rimettete nella pentola la carne che avevate tolto per poter meglio rigirare, aggiungete acqua fino a coprirla, assaggiate se il sugo è giusto di sale e, se manca, salate e pepate. Ponete il coperchio sul tegame senza chiuderlo del tutto, in modo che resti un piccolo sfiatatoio e, non appena il pomodoro avrà ripreso il bollo mettete il fuoco al minimo in modo che il ragù possa «pippiare», ossia bollire a malapena. Soltanto ora, finalmente, potrete allontanarvi dalla pentola, e basterà che diate uno sguardo di tanto in tanto per assicurarvi che il sugo non si addensi troppo e che non «attacchi» sul fondo.

Man mano che la carne si cuoce, è consigliabile sollevarla dal sugo, in quanto le «tracchiulelle» cuoceranno molto prima del grosso pezzo di manzo o di maiale. Tenete però sempre presente che la carne a ragù deve essere molto cotta, e quindi le tracchiulelle saranno cotte quando cominceranno a distaccarsi dalle ossa, e il pezzo intero quando la forchetta vi penetrerà con estrema facilità.

Fare quasi raffreddare la carne prima di affettarla e rimettetela poi nel sugo, in modo da servirla ben calda. Con questo sugo potrete condire zitoni, paccheri, regine, penne, fusilli, orecchiette, cannelloni, gnocchi, insomma preferibilmente pasta grossa, e la famosa lasagna alla napoletana.

Io consiglio gli zitoni lunghi da spezzare, togliendo gli archetti che serviranno, con la «minuzzaglia», da mischiare ai fagioli e alle patate. Per contorno sono da preferirsi i friarielli saltati in padella, con aglio, olio e peperoncino e, come vuole la tradizione, a crudo.

Fonti

Ricerca storica dal Web e testi degli autori citati

La ricetta è tratta da un vecchio libro di Cucina napoletana da cui traggo le ricette che preparo:

“A Napoli si mangia così” di Vittorio Gleijeses

Il mio ragù è quanto più simile alla ricetta originale ma, per motivi di salute ho dovuto rinunciare a tracchiulelle e carne di maiale.

Ed è un piatto che riesco a preparare raramente data la lunga preparazione, ma , quando ci riesco il profumo di ragù invade tutta la scala del mio caseggiato milanese riportandomi col pensiero alla mia adorata ed indimenticata Napoli.

La leggenda del ragù
A Napoli alla fine del 1300 esisteva la Compagnia dei Bianchi di giustizia che percorreva la città a piedi invocando “misericordia e pace”. La compagnia giunse presso il “Palazzo dell’Imperatore” tuttora esistente in via Tribunali, che fu dimora di Carlo, imperatore di Costantinopoli e di Maria di Valois figlia di re Carlo d’Angiò. All’epoca il palazzo era abitato da un signore nemico di tutti, tanto scortese quanto crudele, e che tutti cercavano di evitare. La predicazione della compagnia convinse la popolazione a rappacificarsi con i propri nemici, ma solo il nobile che risiedeva nel “Palazzo dell’Imperatore” decise di non accettare l’invito dei bianchi nutrendo da sempre antichi e tenaci rancori. Non cedette neanche quando il figliolo di tre mesi, in braccio alla balia sfilò le manine dalle fasce ed incrociandole gridò tre volte: “Misericordia e pace”. Il nobile era accecato dall’ira, serbava rancore e vendetta, ed un giorno la sua donna, per intenerirlo gli preparò un piatto di maccheroni. La provvidenza riempì il piatto di una salsa piena di sangue. Finalmente, commosso dal prodigio, l’ostinato signore, si rappacificò con i suoi nemici e vestì il bianco saio della Compagnia. Sua moglie in seguito all’inaspettata decisione, preparò di nuovo i maccheroni, che anche quella volta, come per magia, divennero rossi. Ma quel misterioso intingolo aveva uno strano ed invitante profumo, molto buono ed il Signore nell’assaggiarla trovò che era veramente buona e saporita. La chiamo’ cosi’ “raù” lo stesso nome del suo bambino.

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Pubblicato da Amato Anna

Blogger per passione. Pasticciona ma piena di buona volontà...

3 Risposte a “Il Ragù alla Napoletana”

  1. ciao!! wow!!! strepitoso!!! la ricetta originale!!! io ho mai avuto il coraggio di farla e credo di averla provata una sola volta! chapeau….grazie di avercelo regalato

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