Quando scrivo per qualcuno mi sento piena. Fradicia, immobile, contratta. La sensazione è proprio quella di essere lì sul punto di partorire qualcosa, ma non sai cosa. E allora senti la gioia e il dolore. Il distacco e la passione. Credo sia la migliore sofferenza quella dello scrittore che si isola dalla realtà per domare i suoi pensieri e sagomarli su una tela di carta. Carta maestra, carta di sabbia, carta dai mille ricordi e improbabili supposizioni. Carta di sogni, poesie, racconti e immaginazioni. Lo scrittore è l’artigiano delle nuove realtà e allora, dal momento che non esisti, voglio parlare di te che mi fai bella la vita da un posto lontano. Il posto magico dei sensi, quelli miei che si acuiscono sui frangenti bianchi delle tue note. Frequenze che conosco bene: accenti, diagrammi, pause e dittonghi. Tutto di te mi sovviene conoscibile nell’ardore delle tue parole ardite. Parole in dono, parole mirate, studiate come le più grandi opere e le magie antiche. Anima inesistente, io ti conosco. Non direttamente da qui, ma da un’altra vita. Mi attraversi come l’acqua che si dirama nei cunicoli del terreno anfratto. Forse mi capisci quando mi dai un arbitrio che rifiuto, forse ti perdo, o ti stupisco. No, è più probabile ch’io t’annoi, lo so. Gattono nelle tue sonorità come una bambina e ritorno ai tuoi occhi come un supplizio, perché il tuo sguardo mai, mai più l’ho ritrovato. Il tuo tocco, mai, mai più l’ho sentito. Ti ho galvanizzato nelle mie paure, ma ti rispetto come l’idea più pura che merita di essere preservata dal rigetto del tempo e ti cullo in me, nel mio grembo caldo. Io al tuo servizio sono la più bella delle madri e tu sei il figlio, l’uomo, l’animale, il bambino, il misogino, la fiamma e l’Amore.
7 novembre
