Archivio della categoria: Origini e storia degli alimenti

Origini, proprieta’ e valori nutrizionali dell’ AVOCADO

L’ avocado, appartenente alla famiglia delle Lauracee, il cui nome originario e’ “ahuacatl” trasformato nello spagnolo “aguacate” e nel portoghese “abacate” conosciuto fin dal 5000 a. C., faceva parte dell’ alimentazione degli Aztechi e dei Maya e fu introdotto in Spagna dai conquistadores insieme a tanti altri prodotti originari delle Americhe .
Il Re Filippo II intuì le potenzialità economiche ed alimentari rappresentate dall’ introduzione delle nuove colture ed invio’ in America, al seguito di una spedizione della prima meta’ del 1500 il medico di corte Fernando Hernandez perché raccogliesse informazioni di prima mano su tutte le produzioni agricole di quei luoghi ed in particolare dell’ avocado che lo entusiasmo’ particolarmente e del quale disse: ” “Io credo che sia il miglior frutto della nuova Spagna in sapore ed in elementi e proprietà attive. Stimola straordinariamente l’appetito sessuale ed è talmente sano che ne danno ai malati”.
Sicuramente l’ avocado e’ un frutto molto particolare , ma nonostante la sua fama di  la fama di afrodisiaco, la sua diffusione in Europa non fu immediata e probabilmente il motivo e’ da ricercare nelle difficoltà ‘ iniziali di coltivazione degli alberi che oltre a richiedere climi tropicali, subtropicali ed al massimo temperati, devono essere riparati dal vento, non sopravvivono ad una temperatura ambientale inferiore ai 4/5 gradi, e soprattutto richiedono per la produzione di frutti, la presenza di due categorie di piante della stessa specie, la “A” e la “B”.
Queste categorie differiscono nella biologia floreale: nelle piante appartenenti alla tipologia “A”, la ricettività del pistillo è attiva durante le ore mattutine, mentre le antere sono piegate ed il polline non può arrivare a destinazione; nelle piante di categoria “B” accade esattamente il contrario.
Pertanto, se si vuole ottenere la produzione di avocadi è indispensabile avere a disposizione contemporaneamente entrambe le varietà A e B e sicuramente, al suo arrivo in Europa queste difficoltà di coltivazione scoraggiarono i contadini.
Per molto tempo, i pochi coltivatori che ne avevano appreso correttamente le dinamiche di riproduzione si guardarono bene dal diffonderle per riservare i frutti, a prezzi molto alti, alle tavole aristocratiche o dei grandi benestanti.
La coltivazione sempre accoppiata di questi alberi che raggiungono anche i venti metri di altezza insieme alla loro esigenza di climi caldi e poco ventilati, ricorda la coltivazione delle Annone che appartengono ad una famiglia diversa, quella delle Annonacee, ma entrambe sono native dell’ America centrale e meridionale, il loro utilizzo alimentare risale alla preistoria, posseggono numerosissime proprieta’ nutritive e salutari e danno frutti solo se sono in coppia.
Dell’ annona, la cui presenza in Europa e’ limitata soltanto a piccole zone della Calabria e della Sicilia orientale e ad alcune localita’ della Spagna, scrivero’ a breve, su questo blog.

La presenza consistente ed il consumo dell’ avocado sui mercati europei ebbe un lunghissimo periodo d’ incubazione, ovvero dalla prima meta’ del 1500 fino all’ inizio del 1900 ed ancora oggi il suo costo rimane abbastanza sostenuto perché proviene soltanto dalle importazioni spagnole ed israeliane.
L’ avocado e’ uno dei pochi alimenti polivalenti perche’ e’ insieme frutto, ortaggio, grasso ed e’ povero di zuccheri semplici.
Possiede un elevato potere calorico e 100 grammi di frutto forniscono più di 200 calorie. Il suo consumo è indicato a chi segue una dieta vegetariana, per le convalescenze e le gravidanze. Per il suo alto contenuto di mucillagini, è adatto anche a chi soffre di colite o gastrite, e grazie alla presenza di vitamina A, ( mg. 14 ogni 100 gr. di frutto, ) B1 e B2 e glutatione e luteina che hanno forti proprietà antiossidanti, può contrastare l’invecchiamento precoce della pelle e fa bene agli occhi.
Recentemente è stato scoperto che l’avocado facilita l’assorbimento di alfacarotene e betacarotene e che diminuisce il prurito nelle dermatiti ed in altre patologie dermatologiche o allergie della pelle ed ha anche poteri antinfiammatori.
Inoltre aiuta a prevenire il morbo di Alzheimer, e’ un coadiuvante delle patologie depressive, si utilizza nella terapia nutrizionale del paziente con sclerosi multipla e grazie al suo contenuto in Vitamina D, aiuta l’assorbimento di calcio e fosforo e quindi ad avere ossa e denti più sani e resistenti.
Infine l’ elemento più rilevante per la salute di chi include l’avocado nella propria alimentazione è l’apporto di acido grasso linolenico e Omega 3, grassi “buoni” in quanto capaci di stimolare la produzione di colesterolo buono (HDL) e frenare il deposito di quello cattivo (LDL).
Con questa proprietà dell’avocado si può diminuire il colesterolo nel sangue (ipercolesterolemia), si può prevenire l’arteriosclerosi e le patologie causate dall’ostruzione delle arterie.

Dopo aver elencato i numerosi benefici che derivano da un consumo costante di avocado e’ bene chiarire che questo NON e’ un alimento leggero e NON fa dimagrire percio’ e’ consigliabile usarlo in sostituzione di altri grassi e comunque NON bisogna mai eccedere nelle quantita’.

 

Il carciofo tra storia, leggende e ricordi personali

Da bambina trascorrevo con la mia famiglia, la tarda estate fino a settembre inoltrato, nella campagna pugliese affacciata sull’ Adriatico, tra il comune di Mola e la frazione di Cozze.
La partenza da Bari era vissuta come un grande avvenimento, dalla preparazione dei bagagli al viaggio, sembrava di dover raggiungere chissà quale località lontana e sperduta!( Se si pensa che attualmente, per raggiungere il medesimo posto bastano venti minuti di macchina, ci si puo’ rendere conto di quanto, negli anni cinquanta dello scorso secolo il tempo fosse dilatato rispetto ad oggi. Insomma, mentre i ritmi di vita del mondo, rotolavano senza freni verso l’ attuale, frenetico presente e verso l’ inarrestabile rivoluzione tecnologica, la maggior parte delle famiglie italiane del sud, nei primi anni cinquanta del secolo scorso, continuava a vivere secondo tempi ed abitudini dell’ ottocento in una beata inconsapevolezza del futuro! )

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Il primo entusiasmo era quello di salire in una carrozza che ci aspettava sotto casa e ci portava alla stazione di Bari dove la mia gioia aumentava quando ci sistemavamo sui sedili di legno di un lungo treno avvolto in un denso fumo grigio.
Il mio posto era sempre accanto al finestrino dove, per un tempo indefinito, m’ immergevo nella visione di un paesaggio caratterizzato da distese interminabili di campi coltivati ad ortaggi e punteggiati da frequenti, piccole costruzioni di pietra con due ruote dentate che un asino bendato faceva girare e che m’ incantavano in voli di fantasia.
Erano le “norie ” ( termine di origine araba, introdotto dagli spagnoli ) ovvero due congegni che, grazie alla forza trainante  di un asino che girava in tondo sollevavano l’ acqua dalla falda sotterranea ; l’ acqua andava a colmare una serie di secchi che si cavolgevano in una vasca dove i contadini l’ attingevano per irrigare i campi limitrofi coltivati a carciofi e situati a pochi metri dalle basse scogliere.
Quando si scendeva dal treno mi sentivo piacevolmente sopraffatta dal profumo dolce delle carrube, dal rumore degli zoccoli dei cavalli e dall’ estenuante frinire delle cicale che ci seguiva fino ad una bianca casa inondata di sole e circondata da campi di carciofi e da alberi di fichi.
Da quel momento incominciavano, finalmente, le mie lunghe, libere e spensierate corse in campagna, con l’ unico obbligo di non togliere mai un detestato cappellino bianco e celeste di piquet ! In quei campi assolati, abitati soltanto da farfalle colorate, da lucertole e da Boby, un simpatico cane che mi seguiva festoso, mi fermavo di tanto in tanto per staccare dalle numerosissime piante i teneri carciofini appena spuntati che mangiavo crudi con grande soddisfazione. Quando esaurivo lo spuntino di carciofi, proseguivo con i fichi che coglievo vittoriosamente dopo ardue arrampicate sugli alberi. Mia mamma mi richiamava in casa all’ ora di pranzo ed ignara delle mie ingorde scorribande, non riuscì mai a spiegarsi perché il cambiamento d’ aria, invece di aumentarmi l’ appetito me lo toglieva….!
Cosi nacque la mia passione per i carciofi, questo antichissimo, prezioso ed impareggiabile dono della natura mediterranea.

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L’intero bacino del Mediterraneo, da occidente a oriente, dalle Canarie alle isole Egee, da Cipro alla Turchia, compresa tutta l’Africa settentrionale e l’Etiopia, avrebbe fatto da culla al carciofo, alla sua coltura e al suo uso medicinale ed alimentare. Ne parlano fin dall’ VIII secolo a. C. i testi greci e nel 250 a.C. , Teofrasto, filosofo e botanico, discepolo di Aristotele ci descrive accuratamente la pianta.
Inoltre, la presenza di numerosissime piante di carciofo selvatico risalenti ad epoche remote che si riproducono spontaneamente ancora oggi in prossimità degli insediamenti etruschi di Cerveteri, ha permesso di ipotizzare che proprio nel nord del Lazio ad opera degli Etruschi abbia potuto avere origine il carciofo come pianta coltivata.
Nella sua ” Naturalis historia ” Plinio il Vecchio ne documenta l’uso commestibile.
Nel “De re coquinaria “, Marco Gavio Apicius, ricco buongustaio dell’età di Seneca, parla di ‘cuori’ di cynara che i Romani, allora come oggi apprezzavano lessati in acqua o vino.
Nella Roma di Nerone, i carciofi si preparavano “sfibrandoli, cuocendoli in acqua e poi pestandoli con farro, insaporendoli con pepe e legandoli con uova.” Con il composto così ottenuto si formavano dei salsicciotti si guarnivano con pinoli, si avvolgevano nell’omento ( membrana addominale suina o bovina ), si spruzzavano col vino e si rosolavano alla griglia ”.

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Dal punto di vista linguistico, molti studiosi ritengono che il termine derivi dal greco classico kynara da cui deriverebbero sia il latino cynara sia il greco moderno agcynara e il turco enginar. Anche il nome botanico Cynara Scolymus, deriverebbe dal greco, perché Scolymus significa appuntito e fa riferimento alla forma spesso allungata di alcuni tipi di carciofo.
Tuttavia il nome italiano “carciofo” e lo spagnolo “alcachofa” derivano dall’arabo “harsciof”, mentre in altre lingue del mondo i termini usati derivano dal neo-latino “articactus” che in Francia si trasforma in artichaut ed Inghilterra in artichoke.
Il termine che designa il genere, Cynara, secondo Lucio Giusto Moderato Columella, scrittore latino di origini spagnole del primo secolo d.C. e autore del più completo trattato di agricoltura dell’antichità, il “De re rustica,” deriverebbe da “cinis”, cenere e sarebbe legato alla consuetudine dell’uso della cenere per rendere più fertili i terreni destinati a ospitare la coltura di questa pianta.
Deliziosa e’ l’ origine mitologica del carciofo che narra di Cynara, una bella ninfa dai capelli color cenere della quale s’ invaghì il sommo Giove, ma Giunone in un raptus di gelosia, la trasformo’ in una pianta di carciofo che della ninfa conservo’ soltanto il colore dei capelli .
Eppure questo meraviglioso ortaggio così apprezzato da Egiziani e Greci e così’ diffuso nell’ area mediterranea ai tempi dei Romani fu poi dimenticato durante il medioevo e ritorno’ sulle tavole italiche nel 1466, per merito di Filippo Strozzi il Vecchio il quale rientrando a Firenze dopo un lungo esilio cui l’avevano costretto i Medici, ne avviò la riscoperta in Toscana, introducendone semi e coltura dal regno di Napoli, dove le piante erano state portate dai mori di Spagna. Di qui il nome di origine araba “harshuf” con cui ancora oggi e’ designato.
Troviamo infatti nel 1466 la segnalazione in Toscana di un ‘frutto di Napoli’ e la stessa segnalazione appare anche a Venezia nel 1493. Tuttavia il consumo del carciofo in questo primo periodo di rinnovata coltivazione ebbe detrattori ed amatori. Da una parte ai primi del Cinquecento, Ludovico Ariosto affermava “durezza, spine e amaritudine molto più vi trovi che bontade” mentre Caterina de Medici Regina di Francia ‘ ne era cosi’ ghiotta da mangiarne fino a sentirsi male, cosi’ come ci riferisce un cronista francese in una nota del 1578.
Michel da Montaigne, verso il 1560, nel suo diario di viaggio in Italia cosi’ scrive:
“in tutta Italia vi danno fave crude, piselli, mandorle verdi, e lasciano i carciofi pressoché crudi”.

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Gli Italiani insieme agli Spagnoli ed ai Francesi introdussero il carciofo nelle Americhe ed in particolare in California ed in Louisiana, dove oggi si concentra circa l’80% dell’ intera produzione americana. In questi Stati , nei ristoranti tradizionali presentano i carciofi come contorno alle ostriche oppure ai frutti di mare.
Nei secoli successivi, il consumo e quindi la produzione dei carciofi s’ intensifico’ tanto che ai primi dell’Ottocento il grande gastronomo Grimod de La Reyniere ribadisce: “Il carciofo rende grandi servigi alla cucina: non si può quasi mai farne a meno, quando manca è una vera disgrazia. E’ anche un cibo molto sano, nutriente, stomatico e leggermente afrodisiaco.”
Non e’ escluso che questo trionfale ritorno dell’utilizzo del carciofo sulle nostre tavole sia stato favorito proprio dalla fama afrodisiaca che per lungo tempo lo circondò. Sicuramente tale qualità era già ben radicata nel 1557, tanto che il Mattioli nei suoi Discorsi scrive: “la polpa dei carciofi cotti nel brodo di carne si mangia con pepe nella fine delle mense e con galanga per aumentare i venerei appetiti”. Un anno più tardi anche un’altra autorità in materia di cibo e buona salute, Costanzo Felici da Piobbico concorda ed attesta che i carciofi:
“servono alla gola e volentieri a quelli che si dilettano de servire madonna Venere”.
Questa convinzione fu ribadita anche da Bartolomeo Baldo che nel suo Libro della Natura, nel 1576, conferma: “Il carciofo ha la virtù di provocare Venere sia nella donna che nell’uomo: la donna la rende più desiderabile, mentre dà una mano all’uomo un po’ ‘pigro’ in queste cose…”
Infine La Framboisière, medico personale di Luigi XIII di Francia scrisse “I carciofi scaldano il sangue e spronano in modo naturale al gioco amoroso Anche le sue numerose virtù salutari erano note fin dall’ antichita’ e sono state confermate dai ricercatori odierni.

Ricco di calcio, ferro, sodio, fosforo e potassio e vitamine A, B1, B2, C, PP, tonico e digestivo, grazie alla cynarina il carciofo provoca un aumento del flusso biliare e della diuresi, svolgendo un’importante funzione coleretica, epatoprotettore ed epatostimolante ed è di grande aiuto nelle diete finalizzate a ridurre il tasso di colesterolo nel sangue. Stimola il fegato, purifica il sangue, fortifica il cuore, dissolve i calcoli , favorisce la diuresi e sembra che contribuisca anche a calmare la tosse.

Inoltre e’ abbastanza ricco di ferro, di sali minerali, di aminoacidi, di fibre, di sostanze fenoliche e possiede una forte capacita’ antiossidante.
Insomma , amarognolo, spinoso e pungente , il carciofo e’ davvero salutare e si presta ad essere preparato in una infinità di modi culinari.
Si adatta ad ogni tipo di terreno appena fertile e sembra convalidare la bontà del precetto di San Giovanni Evangelista il quale dice ” Nolite iudicare secundum facies ” ovvero ” non giudicate secondo l’apparenza ” Insomma, cosi’ come l’ abito non fa il monaco così il sapore dolce con una punta di amaro del carciofo ed il suo aspetto un po’ spinoso non lo rendono meno buono!
Oggi la coltura del carciofo è diffusa in quasi tutti i Paesi dell’ area mediterranea ed in particolare nell’ Italia meridionale e in Spagna, mentre è ancora poco conosciuto nei Paesi del Nord-Est europeo ed in Russia.

 

Storia del “menu”

Il nome delle pietanze disponibili in un esercizio pubblico seguito dal corrispondente prezzo nasce nel tardo ottocento anche se fonti molto più antiche riferiscono che, in Mesopotamia fin dal 1100 a.C. , durante il regno di Assubanpal, gli Assiri usavano scrivere su una tavoletta di argilla l’ elenco dei piatti che sarebbero stati serviti durante i banchetti reali.
Testimonianza di menu ex post e’ la nota, nel Satyricon di Petronio, con i nomi di tutte le prelibatezze servite durante uno dei fastosi convivi di Trimalcione.
Altri elenchi ex post di pietanze riguardano quelle servite durante il pranzo organizzato nel suo castello da Matilde di Canossa, nel 1077 per celebrare la conciliazione tra Enrico IV ed il Papa Gregorio VII.
Anche la lista delle 18 “imbandigioni” con la descrizione delle magnificenze della presentazione, servite nel 1368 a Milano al matrimonio di Violante Visconti figlia di Galeazzo II, con il Duca Lionel di Clarence figlio di Edoardo III Re d’ Inghilterra, ci sono state trasmesse da menu ex post .
Un altro esempio di menu ex post e’ quello di Mastro Zafirano che, nel Maggio 1487 elenco’ le numerose pietanze servite al pranzo di nozze di Lucrezia d’ Este con Annibale Bentivoglio e sanci’ la nascita del primo piatto di tagliatelle, una nuova pasta che aveva creato per l’ occasione!
Infine non si puo’ tralasciare il ricordo di uno splendido pranzo rinascimentale che ci e’ pervenuto solo grazie ad uno di questi elenchi riassuntivi e riguarda un banchetto tenutosi a Roma in Castel Sant’ Angelo nel 1593 voluto da S.S. Clemente VIII ( Ippolito Aldobrandini ) in onore dei serenissimi Principi Massimiliano, Filippo e Ferdinando, figliuoli del serenissimo Granduca Guglielmo di Baviera a cui parteciparono circa mille persone e dove ogni vivanda, ben descritta, era connotata da un motto in latino ed era simbolo di buon augurio.
Discendente in linea diretta dalla struttura conviviale del tardo medioevo e del rinascimen­to ed anticipatore dei moderni buffet, il servizio alla francese consisteva nel posare su un tavola molto ampia tutte le pietanze contemporaneamente, in enormi vassoi traboccanti di cibi di ogni tipo e posizionando quelli caldi su scaldavivande e quelli freddi su basi maestose, spesso a gradini coperti da stoffe preziose, ornati da fiori e da elaborate composizioni.
Gli ospiti si servivano senza cerimonie e senza osservare alcun ordine. Ciascuno, obbediva esclusivamente ai propri gusti e al proprio appetito ed organizzava il proprio personale menu spesso in modo indisciplinato e confusionario e spesso cio’ accade anche adesso!
La forma menu, cosi’ come la conosciamo oggi , segue l’ introduzione in Europa del cosiddetto servizio alla Russa che, gia’ sperimentato a Mosca, fu usato per la prima volta in Francia nel 1810, nel Palazzo del Principe Borissovic Kurakin ambasciatore dello Zar Alessandro I presso la Corte napoleonica.
Consisteva nel far accomodare gli ospiti a tavole apparecchiate con preziose tovaglie, raffinate porcellane, cristallerie ed argenti; numerosi valletti, seguendo l’ ordine di successione delle pietanze trascritte su un cartoncino dagli chef, servivano i piatti ad ogni commensale.
Successivamente, in Francia, le hostellerie, le taverne, gli “auberge”, furono obbligati ad adeguarsi alle esigenze di una nuova utenza, quella della borghesia emergente e sempre più spesso gli ospiti, al loro arrivo, potevano consultare un elenco dei servizi e delle pietanze disponibili, con i corrispondenti prezzi.
Intorno alla prima meta’ del 1800 , questa abitudine si diffuse in tutta Europa , ma i menu per i pranzi ufficiali delle classi sociali medio-alte, erano scritti esclusivamente in francese, in considerazione del prestigio che godeva questa lingua in campo gastronomico.
In Italia la tendenza cambiò quando Vittorio Emanuele III decise di usare nei menu la nostra terminologia, in occasione di un pranzo di gala offerto a Roma alla fine del 1907.
Per redigere questo testo, il Re incaricò una commissione dell’ Accademia della Crusca e di altri glottologi per trasformare i termini della gastronomia francese in quelli corrispondenti di lingua italiana ed il 12 gennaio 1908, l’accademia della Crusca italianizzo’ anche il termine menu sostituendolo con lista o minuta, ma mentre la scrittura delle pietanze in lingua italiana fu accolta positivamente, il termine francese menu continuo’ e continua ancora oggi ad essere privilegiato.
Auguste Escoffier, nel 1912 pubblico’ il “Libro dei menu ” e con il termine “menu” indico’ sia l’ elenco di preparazioni e bevande sia il nome del foglio dove l’ elenco era trascritto.
Così nei pranzi ufficiali si diffuse pian, piano l’ elegante abitudine di scrivere su un cartoncino, che veniva posato a tavola per visione ai commensali, la successione delle vivande e dei vini che sarebbero stati serviti.
Progressivamente questo uso si perfeziono’ con l’ esperienza e si consolido’; i menu scritti ed affiancati dai rispettivi prezzi, divennero consueti in ogni albergo, ristorante, pizzeria, rosticceria ed assunsero forme e presentazione delle vivande e dei servizi sempre piu’ accurati . Alcuni noti pittori, esperti di illustrazioni di libri e manifesti, furono invitati a disegnare bozzetti per menu dalle compagnie di navigazione, da grandi alberghi e ristoranti, da case produttrici di vini, liquori, aperitivi, ecc., ottenendo dei risultati così belli da sollecitare la passione per il collezionismo da cui personalmente sono stata contagiata e con piacere ho pubblicato in questo articolo, qualche foto della mia collezione.

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Storia della melanzana

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Alcune fonti attestano la presenza della melanzana in India e nel Sud – est asiatico fin dalla preistoria, tuttavia non esiste un corridoio ben delineato e verificabile del suo arrivo e della sua diffusione in Europa.
Ad esempio, per lo zucchero esistono i riferimenti accertati provenienti da greci e romani’ e cosi’ per il pomodoro e per la patata di provenienza certa con percorsi di diffusione agevolmente databili, in quanto concomitanti con l’ arrivo dei conquistadores nelle Americhe ed il loro rientro in Portogallo e Spagna.
Per la melanzana invece bisogna affidarsi quasi esclusivamente all’ etimologia del termine e guarda caso, quando ci sono delle incertezze, spuntano puntualmente arabi e carmelitani come vettori del prodotto.
Comunque sia, c’e’ la certezza del nome originario che e’ AL opp. AR BADINGIAN, che ha probabile origine persiana e comunque e’ di sicuro etimo arabo. Il suddetto nome, a quanto riferiscono fonti un po’ deboli, viene usato in Andalusia, per la prima volta, da un medico arabo nel 1200, ma la diffusione di questo ortaggio, sempre nel Sud della Spagna risale ad un secolo piu’ tardi ed il suo uso sistematico come alimento si attribuisce agli stessi arabi.
Considerando che da ” al badingian ” deriva l’ antichissima e tuttora usata denominazione catalana di “alberginia”ed il francese ” aubergine ” ed anche il regionale francese “beringene” non ci dovrebbero essere dubbi almeno sul nome originario, sulla provenienza orientale e sul suo approdo in Spagna.
Tuttavia, seguendo l’ itinerario che, sempre attraverso gli arabi, arriva in Sicilia nella prima meta’ del 1400 e successivamente nella nostra Penisola va considerato il passaggio da “al badingian ” a mulingiana ” nel dialetto siciliano, a petonciana della parlata toscana fino all’ italiano melangiana, melanzana o melenzana. Non bisogna ignorare inoltre che, in una regione della Francia si usa il termine “marignan” che si ritrova nel romanesco marignano, ma in questo caso sarebbe impossibile trovare una primogenitura visto che potrebbero essere stati i romani ad utilizzare il termine francese, ma potrebbe essere stato anche il contrario.
E’ il prefisso mela che lascia dubbiosi i ricercatori, tuttavia il passaggio da “badin” a mela potrebbe essere credibile se si pensa che, in Europa il termine mela, nell’ antichita’ era frequentemente usato, sia come sinonimo di pomo sia per chiamare prodotti della terra dall’ aspetto più o meno tondenggiante non convincenti come alimenti ma ai quali si attribuivano poteri afrodisiaci o malefici. Basti pensare al pomodoro che appartiene alla stessa famiglia delle melanzane e segui’ il medesimo percorso linguistico. Anche nelle ricette medievali si rintraccia frequentemente il termine pomo per identificare genericamente un frutto tondo . Nel catalogo delle piante di John Tradescant, giardiniere del re d’Inghilterra, si trova, nel 1656, un non meglio specificato ” Malum insanum fruoto purpureo,” e lo stesso Linneo ne fu influenzato ed il primo nome che dette alla melanzana fu quello delle specie di appartenenza originarie dell’ Oriente , ovvero Solanum insanum o Solanum incanum che, successivamente, sostitui’ con ” melongena ” cioe’ pianta che produce mele o pomi.

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A questo punto si puo’ spiegare agevolmente anche il significato successivo di ” mela insana ” che sembrerebbe una traduzione letterale di melangiana divenuta successivamente melanzana o melenzana e delle sue innumerevoli variazioni dialettali (mulingiana, mulungiana , melangian, mulignana, melanciana e via dicendo ) invece e’ una sorta di significato per assonanza che rispecchia tutto sommato la saggezza popolare. Infatti evidenzia una caratteristica fondamentale delle solanacee che non si portano dietro una buona nomina visto che, sia i frutti immaturi che foglie e gambi di questa famiglia di ortaggi esclusa la patata, contengono tracce di “solanina” che e’ un veleno.
Una leggenda narra che uno squisito piatto turco di melanzane venne chiamato “Imam Bayeldi, “che vuol dire “l’Imam trapassato”, perche’ fu servito ad un Imam il quale, dopo averlo assaggiato ne fu cosi estasiato da morirne!
Secondo un’ altra credenza si riteneva che l’abuso delle melanzane portasse alla pazzia.
Inoltre bastera’ riflettere un po’ per renderci conto che l’ attenzione a questa pericolosità allertata dal nome, esagerata o meno che sia esiste ancora oggi e tanto per fare un esempio, in molte famiglie del Sud Italia, le melanzane non si consumano mai crude ed abitualmente, prima della preparazione culinaria si spruzzano di sale e si lasciano al sole a perdere la loro acqua di governo che e’ scura e amara.
In realta’ questa operazione potrebbe servire ad eliminare completamente i residui di eventuale solanina che viceversa potrebbe essere eliminata soltanto da una cottura superiore ai 240 gradi. Comunque si tratta di un’ accortezza esagerata perche’ nella melanzana matura, la solanina e’ presente in quantita’ di mg 9-13 per ogni 100 grammi di prodotto fresco e questa quantità e’ di gran lunga inferiore rispetto a quella ritenuta accettabile ed innocua per gli ortaggi della famiglia delle solanacee che e’ di mg. 20-25 per ogni 100 grammi.

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Parliamo ora delle numerosissime proprieta” benefiche della melanzana che può essere definita la regina delle nostre tavole estive.
Leggera, gustosa, poco calorica, la melanzana ha un basso contenuto in lipidi e calorie (circa 17 calorie per 100 grammi), quindi e’ consigliata anche nelle diete, se e’ cucinata al forno o grigliata. L’unica precauzione è quella di non eccedere con i condimenti, perché ha la tendenza ad assorbire l’olio. Combatte la ritenzione idrica, al punto da essere indicata fra i sette super cibi che aiutano a debellare la cellulite.
La melanzana ha inoltre ottime proprietà’ eretiche vale a dire che, favorisce la produzione della bile, stimolandone il rilascio da parte delle cellule epatiche ed insieme agevola la digestione.
Tutto ciò porta a migliorare la funzionalità epatica e collabora alla riduzione del colesterolo nel sangue.
Possiede un elevato contenuto in fibre e come tale ha un’alta capacita saziante ed e’ molto diuretica perche’ e’ composta da acqua al 93%; e’ consigliata anche contro la stipsi e riduce la pressione arteriosa.
Ecco, di seguito alcune varietà:

La “Violetta lunga palermitana,”viola scuro a frutto allungato;
La “Violetta nana precoce a frutto piccolo”
La “Melanzana di Murcia “con foglie e fusto spinosi, frutto violetto, rotondo;
La “Mostruosa di New York “con frutto violetto o bianco enorme a forma di sacchetto
La “Tonda comune di Firenze”, violetto pallido ibrido, con pochi semi, polpa tenera e compatta.
La “Lunga nera di Napoli” con frutto violetto, allungato, quasi sempre a forma di clava;
La “Baluroi” precoce,
La “Lunga nera di Rimini”
La “Lunga violetta di Lusia” Con frutto violetto ovale o tondo
La “Black Beauty”
La “Tonda di Valencia” precocissima,
La “Tonda precoce siciliana viola”
La “Violetta tonda della Cina”
La “bianca ovale”
Infine bisogna menzionare la poco conosciuta melanzana rossa di Rotonda, un comune montano in provincia di Potenza.
Nel dialetto locale viene chiamata “merlingiana a pummadora,” ma non ha nulla a che vedere con le melanzane nere o viola, originarie dell’India.
Si tratta di una qualita’ appartenente ad una specie portata in Italia dall’Africa alla fine del 1800, dai reduci delle guerre coloniali in Etiopia.
La melanzana di Rotonda ha un colore arancio con leggere sfumature verdognole all’inizio della maturazione, e rossastre di maggiore intensità, a ciclo completato; una polpa discretamente carnosa che non annerisce neanche dopo parecchie ore dal taglio; un profumo intenso e fruttato abbastanza simile a quello del fico d’India.
Al palato risulta un po’ piccante con una punta di amaro e quasi esclusivamente si consuma sott’olio e sott’aceto. Sono molto apprezzate e consumate fresche le tenere e gustose foglie che si differenziano nettamente da quelle della melanzana comune, sia per per forma che per dimensioni.

Origini e storia della patata

 

Origini e diffusione della patata in Europa
Nel 1537, nella pianura di Bogota’, risalendo il fiume Magdalena un gruppo di conquistadores assaggiarono per primi la patata. Tornati in Spagna dissero a Carlo V che era ” una cosa come tartufi dal buon sapore chiamata papa ( ma anche lonza o Iomuy ) ” di cui si nutrivano gli Incas che la consideravano un dono della Dea Axomana.
Di essa esistevano molte varietà con diversa colorazione della buccia dal giallo chiaro al rosa grigio, fino al marrone violaceo, scuro, chiazzato e screziato e rappresentava l’alimento base delle popolazioni delle Ande, del Sud del Cile, dell’ Araucaria, dell’ isola di Chiloe’ e dell’ Arcipelago de Los Chonos, ovvero di quelle terre fredde dove il mais non poteva essere coltivato.
Per meglio conservarla venivano utilizzate tecniche particolari; ad esempio, usavano stendere le patate su un letto di foglie e le lasciavano coperte di sale, per 5 giorni. Di notte gelavano e di giorno venivano calpestate in modo da far uscire l’acqua che il sole poi faceva evaporare e la procedura era resa possibile grazie all’umidità costante dell’aria.
Una volta essiccati, i tuberi venivano conservati in capanne molto ben aerate e pare che riuscissero a conservarle così anche per 10 anni.
Le patate venivano consumate sfarinate; la loro farina era chiamata “chunu” e serviva per preparare minestre insieme a carne di lama e legumi.
Insomma si deve agli Incas quelle che noi, oggi, chiamano patate liofilizzate e che usiamo per preparare veloci puree !
La diversità di denominazioni della patata in Europa deriva anche dalle modalità della sua diffusione, non dimenticando che nell’America precolombiana il tubero era chiamato papa dagli Inca, poñi in lingua araucana e coque in lingua ayamara.
L’italiano patata, come potato, papae, batata in uso nei Paesi anglosassoni e iberici, deriva quindi proprio da papa usato dagli indigeni americani.
Attraverso l’italiano e l’inglese, il termine di patata si diffuse nel resto dell’Europa. In alcuni dialetti germanici ancora oggi e’ chiamata Patätsche, Pataken.
Al suo arrivo in Italia fu chiamata anche “tartifola” per la sua somiglianza al tartufo e questa denominazione sopravvive ancora oggi in alcuni dialetti.
In tutta l’area mitteleuropea e germanica trionfa il termine Kartoffel, con le varianti latinizzate di cartufole o cartufolaria ancora in uso nelle campagne friulane.
Si ipotizza che le patate siano giunte in Europa seguendo un percorso che va dai campi della Colombia, attorno a Bogotá, attraverso il fiume Magdalena, fino al porto di Cartagena e da qui inizialmente approdarono in Spagna, a Siviglia, tra il 1560 e il 1564, per poi passare nel Portogallo nel 1575 circa, e successivamente a Madrid verso la fine del secolo.
In Italia, importata dalla Spagna dai Carmelitani Scalzi, la patata arriva nel 1564-65, ma la sua coltivazione iniziale fu limitata agli orti botanici di Padova e di Verona, rispettivamente nel 1591 e nel 1608. In Francia compare nell’orto botanico di Montpellier nel 1598, e nello stesso tempo come pianta agricola nel Delfinato, in Borgogna e in Alsazia, da dove passa in Svizzera. Coltivata nell’orto botanico di Parigi nel 1601, da qui si estende in Lorena e raggiunge Blois nella Loira.
Nel 1565 Filippo II di Spagna invia al papa un certo quantitativo di patate, che inizialmente vennero scambiate per tartufi e quindi assaggiate crude, con ovvio disgusto, ma successivamente il Papa Pio V, appassionato botanico, le apprezzo’ dal punto di vista decorativo e le fece piantare nei giardini vaticani.

Inizialmente, come tutti i nuovi alimenti importati dal nuovo mondo, anche le patate furono viste con diffidenza e pregiudizio soprattutto perche’ crescevano sottoterra ed era impensabile che ci si potesse nutrire con un cibo che nasceva e cresceva sotto terra, insomma un cibo del diavolo!
Pertanto le buone patate furono ritenute capaci di “attrarre Venere” e come tali potevano essere manipolate solo a scopi di stregoneria; furono accusate di essere tossiche ed apportatrici di lebbra, di flatulenze, di disturbi ghiandolari e febbri e di poter essere utilizzate solo per l’ alimentazione di popoli diseredati e ridotti alla fame come animali. Così, grazie a questo alone diabolico la patata rimase in attesa di proficua utilizzazione per quasi un secolo ed i soli che si interessarono ad essa furono i botanici europei. La prima descrizione completa che abbiamo della patata è proprio di un botanico, l’ inglese John Gerard del 1597, al quale seguirono altri botanici ed erboristi che coltivarono la patata quasi esclusivamente come rarità, nei loro giardini.
La patata inoltre, apprezzata per i suoi fiori, era coltivata in alcune case signorili in piante d’appartamento. Tuttavia un’ ultima superstizione sulla patata e’ stata tramandata fino ai nostri giorni e riguarda proprio i suoi fiori che, in alcune regioni italiane, vengono considerati portatori di malaugurio.

 

 

Fra le numerose resistenze che impedivano l’ uso delle patate come nutrimento umano ci fu anche quella della difficolta’ legata al suo utilizzo alimentare, infatti non si sapeva bene come prepararle. Alcuni le facevano bollire e le mangiavano con la buccia, altri le friggevano sempre con la buccia per poi inzupparle nel vino e spesso si confondeva la patata americana con la patata dolce che era coltivata specialmente in Spagna ben prima che Colombo “scoprisse” l’America, oppure col topinambur.

In Russia si preferì a lungo morire di fame piuttosto che cibarsi del “frutto del diavolo”, mentre in Prussia per incoraggiare l’uso e la coltivazione, nell’anno 1651 fu emanato un editto in cui si condannava al taglio del naso e delle orecchie chiunque si fosse rifiutato di coltivare le patate.
L’ Irlanda fu tra i primi paesi ad usare, per esigenze di sopravvivenza, la patata come sistematico nutrimento ed a metà del secolo XVIII ne divenne l’alimento principale.
In Inghilterra la massima espansione della patata si registrò tra il 1770 e il 1860.
In Germania già nella prima metà del secolo XVIII questo tubero rivestiva una certa importanza. Nei Paesi Bassi la troviamo nel 1800 già come alimento nazionale.
In Italia la patata fece la sua comparsa agli inizi del secolo XVII, introdotta dal granduca Ferdinando II di Toscana . Le prime coltivazioni agricole furono avviate nelle valli del Po e della Stura ed all’ inizio del 1800, timidamente, anche le popolazioni delle nostre vallate iniziarono a conoscerla.
L’epoca d’oro della diffusione di questo alimento è databile quindi alla fine del XVIII secolo.
Nel 1783, portata dai russi in Alaska, la patata completò il giro del mondo cominciato poco più di due secoli prima. Ancora due anni e l’umile frutto delle fredde terre andine sarebbe finito a corte, grazie al farmacista e agronomo francese Antoine Augustus Parmentier che ne studio’ le proprietà alimentari ed il cui nome appare tuttora nei menu dei ristoranti di tutto il mondo. Infatti presero il nome da Parmentier alcune delicatissime preparazioni con le patate ( notissimo e’ il potage di patate, porri e panna ) con le quali furono deliziati i palati di Luigi XVI e della regina Maria Antonietta.
Tuttavia proprio in Francia , nonostante la pubblicità della famiglia reale (Maria Antonietta ne portava addirittura i fiori sul corpetto) la patata non ebbe grande successo ed francesi continuarono ad essere eccessivamente diffidenti nei suoi confronti e la definivano ” uno strano ortaggio”.
La diffusione delle coltivazioni sistematiche della patata in quasi tutta l’Europa avvenne sempre per motivi di necessità ed in concomitanza con gli elevati prezzi dei cereali, che aumentavano per i crolli di produzione causati da annate avverse per gelate primaverili, grandinate, alluvioni e siccità e per le guerre.
Così accadde in molti paesi nordici durante la guerra di successione spagnola (1702 – 1713).
In Inghilterra tra gli anni 1770 e 1860, la diffusione della patata è collegata, all’andamento dei prezzi dei cereali, in quel periodo abbastanza alti, infatti sempre in questo paese, dopo il 1860, quando grandi quantitativi di grano iniziarono ad essere importati dall’America e dalla Russia, i consumi si orientarono nuovamente verso i cereali.
In Germania, la coltura della patata ebbe una forte impennata tra gli anni 1770/72, anni di carestia.
Anche lo scienziato statunitense Rumfors studiava le patate e i modi per rispondere alla carenza di alimenti in grado di nutrire una popolazione in aumento.
Nel secolo XIX la patata entrò con successo nella cultura alimentare dell’Europa Settentrionale ed in alcuni paesi diventò il cibo prevalente o unico delle popolazioni rurali.

La patata e’ un prodotto fresco, una verdura e un farinaceo al tempo stesso e possiede importanti caratteristiche preziose per l’organismo ed il Programma Nazionale Nutrizione e Salute (PNNS) raccomanda di integrare questo alimento in ciascun pasto.

La patata contiene:

77% d’acqua in media
materia secca : 17,6% di amido, 1,9% di proteine, 1,8% di fibre, una piccola percentuale di materie grasse (0,1%) e 2% circa di altri elementi (vitamine e minerali).

Glucidi complessi
Riserva di glucidi vegetali, l’amido si accumula nella patata. Questa ricchezza di glucidi complessi conferisce alla patata le qualità più tipiche di un farinaceo: è fonte di energia e favorisce la sazietà.

Vitamine
La patata è uno degli unici farinacei a contenere della vitamina C. Oltre al ruolo di antiossidante, la vitamina C favorisce un migliore assobimento del ferro. Per preservare al meglio questa vitamina, le patate devono essere conservate al riparo dalla luce e cotte preferibilmente al vapore, con la buccia.

Minerali
Nella patata sono presenti una ventina di minerali. La patata è infatti fonte di potassio che stimola i nostri muscoli e il nostro cuore. Contiene anche magnesio, ferro e fosforo.

Fibre
La patata è fonte di fibre presenti sia nella polpa sia nella buccia. Le fibre rallentano l’assorbimento dei glucidi e prolungano nel tempo la loro efficacia energetica. Inoltre favoriscono la sensazione di sazietà e sono ottime per l’intestino.

Una porzione da 300 gr di patate cotte nell’acqua oppure al vapore offrono

5 gr di fibre, ossia 20% dell’apporto quotidiano consigliato
42% dell’Apporto Giornaliero Raccomandato di vitamina C, 49% contenuta nella buccia
50% dell’Apporto Giornaliero Raccomandato di potassio, 57% contenuto nella buccia
10% dell’Apporto Giornaliero Raccomandato di magnesio, 18% contenuto nella buccia
10% dell’Apporto Giornaliero Raccomandato di ferro, 7% contenuto nella buccia
Adattando le quantità, le patate rispondono alle esigenze fisiologiche di qualsiasi età.

Si conclude così una storia davvero gloriosa proveniente da lontano e che dopo alterne vicende e’ entrata alla grande nella nostra alimentazione quotidiana in migliaia di elaborazioni che vanno dal letto di patate bollite ed affettate sulle quali cui si può adagiare il prezioso caviale fino alle meno nobili, ma sicuramente buonissime ed accessibili patatine fritte !

 

Origini dello zucchero di barbabietola

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Origini dello zucchero di barbabietola

I primi riferimenti ad una famiglia di piante conosciute con il nome di Beta si ritrovano nella letteratura greca intorno al 420 a. C.
Venivano descritte come “versatili piante da giardino” e se ne annoveravano varietà chiare e scure. La coltivazione della barbabietola si espanse gradualmente attraverso la Francia e la Spagna, più spesso grazie alle coltivazioni nei monasteri, ma anche per opera dei  contadini e già nel quindicesimo secolo la barbabietola veniva coltivata in tutta Europa soprattutto per le sue foglie, che erano probabilmente considerate gli spinaci o le bietole di allora.
In seguito, la radice divenne una verdura diffusa, specialmente la variante rossa conosciuta come barbabietola.
Nel 1600 l’agronomo francese Olivier de Sererres riferì: “quando viene cotto, questo alimento produce un succo simile allo sciroppo di zucchero”, ma nessuno diede grande importanza alla ragione per cui tali radici fossero dolci.
La prima pietra miliare nella storia europea dello zucchero è la sensazionale scoperta dello scienziato tedesco Andreas Marggraf. Nel 1747, lo studioso dimostrò che i cristalli dal sapore dolce ricavati dal succo di barbabietola erano gli stessi che si ottenevano dalla canna da zucchero.
La prima fabbrica di zucchero venne costruita nel 1801 a Cunern, nella Bassa Slesia (oggi in Polonia) dove Napoleone fu uno dei primi ad assaggiarlo e fu proprio lui, agli inizi del 1800 durante il blocco delle linee commerciali francesi, quando dalle botteghe europee lo zucchero di canna era praticamente sparito, a dare allo zucchero di barbabietola la spinta necessaria per la sua diffusione.
Nel 1811 ordinò la coltivazione di 32.000 ettari di terreno a barbabietola da zucchero e fornì l’assistenza necessaria a costruire le fabbriche di trasformazione. Nel giro di pochi anni sorsero più di 40 fabbriche di zucchero da barbabietola, soprattutto nel nord della Francia ma anche in Germania, Austria, Russia e Danimarca.
Quando furono riaperti i porti continentali riapparve lo zucchero di canna e molti Paesi fermarono la lavorazione delle barbabietole. Il governo francese, al contrario, sostenne i progetti di selezione delle varietà di barbabietola con i più alti livelli di zucchero e di miglioramento delle tecniche di estrazione. Questo duplice approccio fece sì che lo zucchero da barbabietola potesse essere un’alternativa praticabile.
Nel corso degli anni l’industria della barbabietola da zucchero ha avuto alti e bassi, ma oggi l’Europa, con la coltivazione di 120 milioni di tonnellate di barbabietole all’anno, produce 16 milioni di tonnellate di zucchero bianco. Francia e Germania ne sono tuttora i maggiori produttori, ma lo zucchero viene estratto dalla barbabietola in tutti i Paesi dell’Unione Europea eccetto il Lussemburgo. Quasi il 90% dello zucchero consumato in Europa viene coltivato localmente, una performance che solo duecento anni fa sarebbe potuta sembrare incredibile.

Origini dello zucchero di canna

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Origini dello zucchero di canna

La produzione dello zucchero di canna ebbe origine in India e furono i soldati di Alessandro Magno a scoprire questa pianta che dava “miele senza le api”, intorno al 300 a.c., ma ad introdurre le coltivazioni in Spagna e poi in Sicilia furono gli arabi, nel 700 d.C. Solo successivamente, dopo la scoperta di Cristoforo Colombo ( al contrario di quanto si dice comunemente) fu introdotta in America.
Esistono molte varietà di zucchero da tavola, diverse per purezza, lavorazione e colore, ma tutte derivano dalla canna da zucchero.
Attualmente la canna da zucchero è coltivata in quasi tutti i paesi dell’Asia, dell’America del Nord, Centrale e del Sud, in Africa e Australia. In Europa la coltivazione è limitata alla Spagna. In Italia non è presente, anche se la sua coltivazione sarebbe possibile in alcune zone della Sicilia e della Calabria.
La canna da zucchero (Saccharum officinarum) è ampiamente coltivata anche nelle regioni tropicali e subtropicali, come Cuba, Porto Rico, Filippine ecc. Appartiene alla famiglia delle Graminaceae, assomiglia molto al bambù ed a completa maturazione, raggiunge altezze che vanno dai 3 ai 6 metri, per un diametro medio di 2-5 cm.
Quando la pianta raggiunge tale grado di maturità, normalmente in circa un anno, viene tagliata e privata delle foglie. Successivamente il processo tradizionale prevede che tali parti vengano ridotte in pezzi più piccoli, a loro volta frantumati e spremuti per ricavare un succo particolarmente dolce, chiamato sugo leggero.
Mentre la parte legnosa, detta bagasse, viene recuperata ed utilizzata come fonte energetica, il sugo leggero viene purificato con latte di calce e sottoposto a filtrazione. Una volta rimossa la parte acquosa per evaporazione, si ottiene un sugo particolarmente concentrato, dalla cui centrifugazione a freddo si ricava lo zucchero grezzo ed un residuo liquido detto melasso.
A questo punto lo zucchero grezzo di canna, contenente circa il 2% di impurezze, è finalmente pronto per il consumo. In alcuni casi viene invece sottoposto ad un ulteriore processo di raffinazione, che lo rende equivalente al classico zucchero da cucina.
Se si seguono i metodi tradizionali, saltando il processo di raffinazione chimica o attuandolo solo in parte, la cristallizzazione del succo dà origine al cosiddetto zucchero integrale di canna.
Rispetto allo zucchero tradizionale, quello integrale di canna contiene una minore percentuale di saccarosio, è più ricco di sali minerali (calcio, fosforo, potassio, zinco, fluoro, magnesio) e vitamine (A, B1, B2, B6, C). Il potere calorico è leggermente inferiore, tant’è vero che 100 grammi di zucchero di canna integrale apportano 356 calorie, contro le 392 del tradizionale saccarosio.
Pertanto, lo zucchero integrale di canna non va confuso con lo zucchero grezzo di canna. Quest’ultimo ricopre un’ampia fetta di mercato e, avendo subito il processo di raffinazione, è molto simile a quello ottenuto dalla barbabietola. Il suo colorito giallo-beige non deve ingannare, poiché è conferito dall’addizione di piccole quantità di melassa o caramello.

 

Storia del pomodoro

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Originario delle regioni tropicali e subtropicali del Cile, del Perù e dell’Ecuador, il pomodoro fu introdotto in Spagna da Hernan Cortes al suo rientro dal Messico, nel 1540.

I frutti erano piccoli, di colore giallo dorato e per diverso tempo la pianta venne utilizzata quasi esclusivamente per scopo ornamentale anche perche’ nel 1544 alcuni erboristi, tra cui l’ italiano Pietro Mattioli la definirono una pianta tossica e l’ annoverarono tra le specie velenose.
Al pomodoro vennero  attribuiti anche misteriosi poteri eccitanti ed afrodisiaci, percio’ fu spesso utilizzato in pozioni e filtri magici dagli alchimisti del Cinquecento e del Seicento.
È forse per questo motivo che il pomodoro venne chiamato nelle diverse lingue europee: love apple in inglese, “pomme d’amour ” in francese, ” Libesapfel ” in tedesco e “pomo (o mela) d’oro” in italiano, tutte definizioni con un esplicito riferimento all’amore.
Altri tuttavia riconducono l’origine del termine pomodoro ad una storpiatura dell’espressione pomo dei mori, giacché il pomodoro appartiene alla famiglia delle solanacee come la melanzana, ortaggio preferito a quei tempi da tutto il mondo arabo, oppure alla prima varietà di frutti dal colore giallo, poi soppiantati da quella di colore rosso sempre originaria dell’America del sud.
Oggi, con l’eccezione dell’italiano, le vecchie espressioni sono state sostituite in tutte le altre lingue da derivazioni dell’originario termine azteco ” tomatl. ”
Ma, anche in questo caso, il nome è frutto di un errore. La pianta importata in Europa è chiamata dagli Aztechi ” xitomatl, ” che significa grande “tomatl.” La “tomatl ” è un’altra pianta, simile al pomodoro, ma più piccola e con i frutti di colore verde-giallo (chiamata oggi “tomatillo”ed impiegata nella cucina centroamericana). Gli spagnoli chiamarono entrambe ” tomate ” e ciò ha originato confusione.

Arrivo’ in Italia solo nel 1596, ma la sua coltivazione sistematica fu avviata e si diffuse soltanto nei decenni successivi soprattutto nel Sud della Penisola e nel Parmense , dove la pianta a frutti rossi sempre proveniente dall’ America del Sud ritrovo’ un habitat soleggiato simile a quello natio.

La documentazione relativa all’origine del suo uso alimentare è scarsa: le prime sporadiche segnalazioni di impiego del suo frutto come alimento commestibile, fresco, spremuto o bollito per farne un sugo, si registrano in varie regioni dell’Europa meridionale del XVII secolo.
Soltanto alla fine del Settecento la coltivazione a scopo alimentare del pomodoro conosce un forte impulso in Europa, principalmente in Francia e nell’Italia meridionale. Ma mentre in Francia il pomodoro viene consumato soltanto alla corte dei re, a Napoli si diffonde rapidamente tra la popolazione.
Nel 1762 Lazzaro Spallanzani ne definisce le tecniche di conservazione notando, per primo, come gli estratti fatti bollire e posti in contenitori chiusi , non si alterino.
Nel 1809, un cuoco parigino, Nicolas Appert, pubblica l’opera “L’art de conserver les substances alimentaires d’origine animale et végétale pour pleusieurs années”, dove fra gli altri alimenti è citato anche il pomodoro .
Negli Stati Uniti ed in genere nelle americhe, da cui proveniva, l’affermazione del pomodoro come ortaggio commestibile trova invece molte più difficoltà per la diffusa convinzione popolare dei suoi poteri tossici.
Le prime tracce della preparazione della salsa si trovano nel “Cuoco galante” di Vincenzo Corrado del 1778, ma senza essere ancora presentata come condimento. Troviamo le prime testimonianze di associazione con la pastasciutta e con la pizza ne Il cuoco maceratese del 1779 di Antonio Nebbia e poi in Cucina casereccia pubblicato nel 1839 in napoletano in appendice alla seconda edizione della Cucina teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti, e fu sicuramente un riuscitissimo accompagnamento. La versione moderna della salsa e dei suoi usi ci è data però da Pellegrino Artusi nel 1891 con La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene.
Nel corso dell’Ottocento il pomodoro viene inserito nei primi trattati gastronomici europei, come nell’edizione del 1819 del Cuoco Galante a firma del cuoco napoletano di corte Vincenzo Corrado, dove sono descritte molte ricette con pomodori farciti e poi fritti:
“Per servirli bisogna prima rotolarli su le braci o, per poco, metterli nell’acqua bollente per toglierli la pelle. Se li tolgono i semi o dividendoli per metà, o pure facendoli una buca “.
Nel 1839, il napoletano don Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, nella “Cucina casarinola co la lengua napoletana”, in appendice alla seconda edizione della “Cucina teorico pratica”, fornisce la ricetta per una salsa: i pomodori bolliti, passati al setaccio, fatti restringere ulteriormente con sugna ed olio, sale e pepe, forniscono una salsa da mettere sopra il pesce, la carne, i polli, le uova e sopra ciò che si desidera.
L’industria di trasformazione e conservazione del pomodoro è nata a Parma, nelle cui campagne dopo la metà dell’Ottocento i contadini preparavano pani di polpa che veniva essiccata al sole (tra le mosche, tanto da essere chiamati pani neri).
La svolta fu determinata da Carlo Rognoni, professore di agronomia e contabilità rurale al Regio Istituto Tecnico di Parma, che sostenne la coltivazione, la sperimentazione agronomica e la divulgazione presso gli agricoltori della zona.
È l’epoca del Comizio agrario e della Cattedra ambulante di agricoltura, due istituzioni che operavano nella campagna della provincia e che con le loro pubblicazioni periodiche sostenevano il progresso scientifico .
Ulteriore supporto venne dalle casse di risparmio che nacquero nello stesso periodo e appoggiarono quelle attività che incrementavano il mercato del pomodoro e dei suoi derivati.
È Rognoni a intuire che per dare un futuro alla coltivazione del pomodoro occorreva creare e sostenere l’attività di trasformazione in conserve.
Nel 1874 si costitui’ per sua iniziativa la Società anonima di coltivatori per la preparazione delle conserve di pomodoro. Si affacciarono quindi alla storia i pionieri dell’industria nascente (Mutti, Pagani, Rodolfi, Pezziol e altri ancora) che dettero vita a delle vere e proprie dinastie di imprenditori.
I laboratori che dichiararono la propria attività, a Parma, alla Camera di commercio, furono 4 nel 1893, 5 nel 1894, 11 nel 1896.
L’industria parmense acquisi’ un autentico primato europeo dopo l’importazione dalla Francia, nel 1905, delle apparecchiature per la condensazione del concentrato sottovuoto.
Le imprese parmensi furono tutte dotate di apparecchiature moderne, e l’industria inizio’ a espandersi verso Piacenza. Nel 1922 sempre a Parma, si realizzo’ la la Stazione sperimentale delle conserve che garanti’ l’innovazione tecnologica, l’assistenza alle imprese e il controllo di qualità e negli anni quaranta la Mostra delle conserve sostenne la produzione dal punto di vista commerciale.
Negli anni in cui opero’ Rognoni, fu attivo anche il torinese Francesco Cirio che dopo aver dato vita alla prima industria conserviera in Piemonte ne apri’ una a Napoli nel 1875.
Essa si specializzerà nei pelati, ottenuti dal tipico pomodoro campano, il San Marzano.
È nella stessa epoca che si realizza il connubio tra pasta e pomodoro e tra pizza e pomodoro.
Nella seconda metà del secolo l’Inchiesta Jacini conferma come il consumo di pomodoro sia diffuso nell’Italia meridionale e soprattutto nella provincia di Napoli, dove è il condimento più utilizzato per i maccheroni e con essi è l’alimento più comune.
Tuttavia il cambiamento delle abitudini alimentari nel Meridione anche a causa delle migliorate condizioni di vita hanno reso il pomodoro un condimento eccezionale.
Al suo successo contribuisce la possibilita’ di conservare i suoi derivati, esso è tuttavia largamente utilizzato anche fresco come contorno e nelle insalate.
Rosso, dalla forma morbida e invitante, il pomodoro è un caposaldo della buona tavola Made in Italy ed ogni anno ne consumiamo in media cinquanta chili a testa in insalata in insalata, in sugo e più raramente nella versione succo.
Il pomodoro è costituito prevalentemente da acqua (oltre il 90%), contiene pochi grassi (solo lo 0,2%), proteine (1%) e zuccheri (3,5%), per un totale di circa 20 calorie all’etto. Il merito della sua fama è dovuto al fatto che, oltre a essere un alleato della linea, il valore nutritivo è quasi del tutto dovuto alle vitamine e ai sali minerali.
Il pomodoro è ricco di vitamina A e C (quest’ultima contribuisce anche al suo gusto un po’ acidulo) e ha una buona dose di potassio e di sodio.
Negli ultimi anni poi, il già amato pomodoro sta vivendo una sorta di seconda giovinezza grazie all’attenzione che i nutrizionisti hanno riservato a una sostanza, il licopene, concentrato soprattutto nella buccia: questo elemento è un carotenoide che sembra utile nella prevenzione di alcuni tumori, come quello alle ovaie. In particolare, questa sostanza avrebbe un effetto protettivo sulle donne che non sono ancora in menopausa. Il licopene è un valido alleato anche per combattere gli effetti dell’invecchiamento e la perdita di elasticità dei tessuti (che si verifica, per esempio, dopo una dieta con la comparsa delle smagliature), perché è un potente antiossidante. Stando ad alcuni esperti, non esisterebbe addirittura un farmaco efficace quanto il pomodoro contro i radicali liberi, responsabili del danneggiamento delle membrane cellulari. Per metterli in condizione di non nuocere all’organismo, esistono meccanismi fisiologici, i quali però per attivarsi hanno bisogno degli antiossidanti di cui il pomodoro è ricco.

Sono circa quattromila le varietà di pomodoro esistenti, che in base alla destinazione d’uso vengono catalogate in quattro grandi famiglie:
– Da tavola: devono avere la polpa consistente, la buccia poco spessa e contenere pochi semi. La forma di questi pomodori è di solito tondeggiante, con la superficie liscia o separata in spicchi. Tra le varietà lisce più famose alcune sono contrassegnate da una denominazione alquanto originale: il Cuor di bue (così chiamato per la forma che ricorda quella di un cuore), il Tondo liscio, il Palla di fuoco e il Meraviglia del mercato.
Da pelati o per salsa: i pomodori destinati all’industria conserviera hanno la caratteristica forma a pera, chiamati per questo anche “perini”. Sono molto carnosi, con pochi semi e di color rosso intenso. Il più popolare è il San Marzano, cui fanno corona altre varietà meno note come il Lampadina, il Ventura e il Vesuvio
– Da far seccare: appartengono a questa categoria le varietà con frutti piccoli e tondi a grappolo, che vengono appesi a seccare appena colti per poi essere usato per insaporire il brodo, oppure aperti a metà e lasciati al sole prima di essere lavati in aceto e messi in vaso con olio e peperoncino.
– Da succo e da concentrato: le varietà destinate a questa categoria sono di forma tonda, con un succo molto denso, ricco di aroma e di zuccheri. La più apprezzate sono il Tondino e il Petomech.

L’unica controindicazione per il consumo di pomodori è la presenza di un’intolleranza alle Solanacee, cui appartengono anche patate, peperoni e melanzane. Chi soffre di questo disturbo, dovra’ evitare il pomodoro.

Se si hanno problemi di acne, se la pelle e’ secca oppure tende a rilassarsi preparare queste semplici ricette casalinghe:
Per l’acne , frullare un pomodoro e impastarlo con un cucchiaio di argilla verde fino a formare una pastella da stendere sulle zone cutanee più colpite: dopo una ventina di minuti, sciacquare con acqua tiepida.
Un paio di volte alla settimana, la pelle grassa si normalizzerà, massaggiandola con un pomodoro fresco tagliato a metà.
3) Per la pelle secca, mescolare un pomodoro frullato con due cucchiai di miele e stendere il composto sul viso e sul collo, lasciando in posa 10 minuti per poi pulire con acqua tiepida.
4) Per rassodare e rendere piu’ compatta e soda la pelle, si dovrebbero frullare o centrifugare due pomodori con due foglie di basilico, mezzo gambo di sedano, due chicchi di sale grosso e un filo d’olio d’oliva, da consumare per qualche settimana una volta al giorno.