Fave e Cicoria, Fav e Foglie, Faf e Fogghie, Fae nette e Foje, ‘Ncapriata, questi i tanti nomi, l’ultimo a testimoniare la grande antichità del piatto. Qualcosa di simile dovrebbe essere stato la prima minestra che l’uomo abbia mai cucinato, siamo molto prima del Neolitico e della scoperta dell’Agricoltura, l’uomo vive di raccolta e caccia. Legumi ed erbe, selvatici entrambi, messi in un recipiente a bollire insieme, cosa c’è di più semplice ed intuitivo? L’operazione resta, immutata nel tempo fino ai giorni nostri, cambia solo qualche sfumatura in fatto di selezione, scelta ed abbinamenti.
I legumi, la carne dei poveri, sono stati sempre abbondanti ed a buon mercato, specie quelli di semplice lavorazione, perché, con la pratica agricola del sovescio, erano una coltura ciclica obbligatoria, le fave erano e sono tra questi. In partenza già costavano poco, quasi niente, con poche si riempivano dei gran piatti, aumentando molto il volume in cottura, riempivano molto lo stomaco, dando sete, la fame veniva gabbata, contribuiva anche l’abbondante produzione gassosa della loro digestione, in sostanza ci si saziava più che altro di acqua ed aria.
I pregi della fava non finiscono qui, con il suo gusto piuttosto neutro si accompagna a tutto ed ecco la fantasia scatenarsi e di piatti con esse ce ne sono una infinità per tutte le stagioni, si trova sempre qualcosa che ci sta bene, dando l’illusione di variare; l’abbinamento d’elezione resta però con le verdure coltivate e non, le cipolle e, per l’estate, i peperoni verdi fritti. Qui parleremo del più classico degli accompagnamenti, almeno per la zona del tarantino, le cicorie, coltivate o selvatiche che siano. Ne daremo la ricetta semplicissima, forse più del barese, ma quella che sembrerebbe aver preso più piede, ed una più saporita e goduriosa, quella praticata da noi, quella che mia madre imparò dalla sua dirimpettaia martinese, la Signora Nunziatina, quando arrivò a Taranto nell’immediato dopoguerra. Mia madre era lucana e lì le fave non si mangiano se non fresche, la dirimpettaia era martinese, sicuramente nata nella tarda metà dell’800, possiamo sicuramente parlare di ricette storiche.
Per preparare questo piatto a quattro commensali occorre una mattinata disponibile, di cui una oretta circa di effettivo lavoro e pochissimi ingredienti:
- quattro etti di Fave Bianche, così in Puglia chiamiamo le Fave secche sgusciate
- un chilo e mezzo circa di Cicorie, meglio se selvatiche e meglio, secondo i nostri gusti, se miste, la Mescculanza, fatta di Cicorie (Cicorielle), Tarassaco (Sivoni), Crespigno (Zanconi) e qualche altra
- almeno una decina di cucchiai e più di Olio Extra Vergine d’Oliva
- quanto basta di Sale grosso e fino per correzioni
Questo comune alle due ricette. Per quella martinese di casa nostra c’è da aggiungere anche due o tre Spicchi d’Aglio e uno o due Peperoncini seri, nel senso della piccantezza.
La preparazione consiste in:
- Cuocere le Fave Bianche, il come lo trovate qui
- Pulire e lessare molto al dente le verdure
- Servire con un generoso d’Olio evo crudo
La nostra versione, dopo il comune punto due, prosegue con una dolcissima soffrittura di Aglio e Peperoncino ed una stufatura delle verdure in questo intingolo.
Approfondiamo la ricetta, entrando nei minimi particolari
Sulla cottura delle Fave non c’è nulla da aggiungere a quello che già diciamo nell’articolo Fave e qualcosa di verde, una ricetta che si ispira all’aspetto di questa ma la realizza sostituendone alcuni elementi, sagacemente, lasciatemelo dire, un po’ d’orgoglio per le proprie “invenzioni” ben riuscite non fa male. In effetti cotte le fave e bollite le verdure, buttandole in acqua in ebollizione e quindi salata, fino a che la consistenza ci soddisfa, non c’è molto da aggiungere se non sul modo di mangiarle. Nel piatto vanno messe separate, quindi presa una forchettata di verdure si passe nelle fave e si mangiano insieme, godendo contemporaneamente dell’amaro dominante delle verdure, anche se attenuata da una sapiente mescolanza, e del dolce delle fave. Solitamente questo tipo di preparazione, ed anche l’altra, si accompagna con delle cipolle, preferibilmente rosse o sponzali crudi, conditi con olio, sale e, se si vuole aceto. Specie nel Salento si sfrigge una dadolata di pane raffermo e la si mischia alle fave, questo anche per aggiungere il sapore dell’olio fritto, spesso con peperoncino, e recuperare il pane duro, non dimentichiamo mai che stiamo parlando di cucina povera del bracciante agricolo.
La versione che usiamo noi, che, per le nostre informazioni, possiamo considerare, vecchia, se non anche antica e martinese, prevede la cottura in acqua bollente delle verdure, una semplice sbollentata per poi finirle di cuocere in abbondante Olio EVO, soffritto dolcemente con Aglio affettato o come meglio credete, e Peperoncino. Diciamo una dolcissima soffrittura delle verdure, piuttosto una stufatura per la dolcezza della cottura in tegame di terracotta, che, moderando gli sbalzi, ammorbidisce la cottura, anche perché alla verdura s’aggiunge qualche cucchiaio della sua acqua di cottura. Abbiamo aggiornato con il successivo post specifico di Cicorielle Selvatiche ripassate in padella (clicca per leggerla).
Anche in questo caso si servono fave e verdura nello stesso piatto ma separate, lasciando che il sovrabbondante olio della verdura vada ad “inquinare” le fave, che poi, come nel caso precedente, vengono mangiate in un unico boccone con le verdure. Consiglio di provare entrambe le ricette, che ne dite? si può fare? Poi decidete quale continuare a frequentare ma potreste anche voi, come noi, non decidervi mai del tutto.
Interessante sapere che questo è un piatto leggendario, ne parla, addirittura, Aristofane nel 450 a.C. e dice, nella commedia le Rane, che era il piatto preferito da Ercole prima delle sue, come si confà ad un eroe figlio di Giove, leggendarie prestazioni amorose. Un antico “aiutino”, che gli permise, lo dice sempre Aristofane, di “far cambiare di stato a più di diecimila pulzelle”. Forse questa leggenda fu creata dalle mamme per convincere i bambini a mangiare la ‘Ncapriata, la Kapyridia, nome che gli davano i bizantini, che, dopo i romani dominarono buona parte del Sud Italia; questo piatto, è spesso troppo amaro, se accompagnato dalle sole Cicorielle e, si sa, il gusto dell’amaro è il gusto che più tardivamente viene acquisito dal palato umano e non sempre, se non è giustamente sollecitato dal consumo di alimenti che lo contengono. Naturalmente, come si confà ad ogni leggenda che si rispetti, c’è chi dice che tutto derivi dall’errata traduzione di Aristofane, il legume sarebbe un altro dei tanti, naturalmente le Commedie dell’Antica Grecia non ci sono arrivate nell’originale, ma solo nelle traduzioni di traduzioni, forse il latino, forse l’arabo, sicuramente delle copie originali o nel greco solo un po’ più moderno che parlavano i saggi della Biblioteca di Alessandria d’Egitto, quella che i Cristiani pensarono bene di distruggere, incendiandola e demolendola. Si sa alle religioni nuove ha sempre dato fastidio che qualcuno potesse avere nei libri elementi per contestarli, meglio l’ignoranza. Non è mica una novità di questi ultimi anni, l’hanno fatto anche i fondatori della religione sulla quale è basata la nostra civiltà (?).
Versione autunnale dove abbiamo abbinato, secondo tradizione, oltre alle Cicorie ripassate con Aglio, Olio e Peperoncino, anche Peperoni fritti con Olive dolci.
Mentre a fine estate, nel Salento tarantino in tempo di vendemmia si usa questo particolarissimo abbinamento con Uva, la cui ricetta è qui.
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C’hama mangià josc . . . mamm ce croc stu mangià
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