Tradizioni calabresi sulla commemorazione dei defunti

La cultura, la ritualità e le tradizioni calabresi sulla commemorazione dei defunti che girano intorno alla morte sono ancora radicate in Calabria e in questo mio articolo voglio raccontarvi quanto sono sentite e come vengono vissute, in modo particolare nella Città Metropolitana di Reggio Calabria… Tradizioni calabresi sulla commemorazione dei defunti

Tradizioni calabresi sulla commemorazione dei defunti – di Rosalba Vazzana

La cultura, la ritualità e le tradizioni calabresi sulla commemorazione dei defunti che girano intorno alla morte sono ancora radicate in Calabria e in questo mio articolo voglio raccontare quanto sono forti e come vengono vissute, in modo particolare nella Città Metropolitana di Reggio Calabria (il cui territorio comprende Reggio e i 96 altri Comuni che già facevano parte della sua provincia). Anche le tradizioni che girano tutto l’anno intorno alla morte, sono molto sentite.

Durante i giorni della Festa dei Santi e la commemorazione dei defunti vengono celebrati e scanditi gesti e riti per ricordare le persone care scomparse. Per esempio a Piminoro, paese nei pressi di Oppido Mamertina (RC), era usanza nei primi due giorni di Novembre preparare un generoso pranzo che veniva inviato in dono, a volte insieme a una bottiglia di vino, alle famiglie dei vicini o ad altri paesani, anche a persone o nuclei familiari indigenti. L’offerta rituale era fatta, esplicitamente in suffragio dei defunti, come atto di affetto e propiziatorio.

In molti paesi aspromontani (RC) è stata riscontrata la credenza, del ritorno dei morti – nella notte tra l’1 e il 2 o per tutto il mese di Novembre – nelle loro case per consumare il cibo e il vino preparato per loro dai propri cari.

Anche ad Archi (RC), la mia bisnonna Maria – ancora oggi ricorda bene e racconta mia madre – preparava un piatto ricco di cose da mangiare, quello che si poteva offrire in quel momento, per onorare i propri defunti che fossero passati dalla loro casa a salutare i cari lasciati anni prima.

Molti studiosi e antropologi hanno raccolto e documentato le credenze presenti in Calabria che insieme ad altri popoli, dalla Lucania fino al nord Africa, vivono il passaggio dell’anima verso l’aldilà come se fosse la soglia di un ponte, che segna il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Questo ponte, definito quasi sempre “sottilissimo come un capello”, o come “una lama di coltello” è considerato piuttosto pericoloso: si innalza infatti sopra il baratro, mettendo in comunicazione questo e l’altro mondo. Secondo la tradizione, il cadavere deve rimanere in casa almeno una notte, affinché la sua anima riesca ad attraversare il “ponte di San Giacomo”, estremamente sottile: se il morto ha pochi peccati, è agile ed attraversa, quindi, il ponte senza difficoltà. Se, al contrario, ne ha molti, è pesante e impacciato e non può superarlo facilmente. I racconti narrano che il passaggio avviene a mezzanotte e viene segnalato da uno scricchiolio avvertito nella camera dove giace il cadavere: quindi, a quell’ora, tutti i veglianti smettono di parlare o di lamentarsi. Se il morto non rimane in casa almeno una notte e un giorno, questo passaggio avverrà solo dopo quaranta giorni di penitenza.

Molte sono le abitudini e le tradizioni calabresi sulla commemorazione dei defunti e legate al momento della morte, ma non tutti quelli che portano avanti queste ritualità conoscono il significato antropologico.

Per esempio ancora oggi, in molte famiglie è usanza che il malato non debba mai esser posto in un letto con i piedi rivolti verso una finestra o porta, perché questo potrebbe rappresentare veicolo verso una morte affrettata o anticipare il suo viaggio verso l’aldilà dopo il trapasso. Il morto viene fatto uscire, dentro il feretro, con i piedi in avanti per agevolare il corteo funebre e collocato in Chiesa con i piedi rivolti verso l’altare e non verso l’uscita per i motivi sopra descritti. Uguale collocazione, quella definitiva infine, una volta posto dentro il loculo mortuario.

Altra consuetudine per esempio, durante un lutto, è coprire ogni specchio in casa, perché questo oggetto potrebbe raccogliere l’immagine riflessa e “intrappolare” l’anima del morente per sempre, lasciandolo in una sorta di oblio o purgatorio.

Molto comune ancora è la tradizione di non accendere durante i giorni del lutto non solo i fornelli, ma nessun tipo di fuoco come un camino o braciere. Infatti difficilmente si cucina e provvedono solitamente parenti ed amici al sostentamento dei familiari del defunto. Questo non perché si è talmente distrutti dal dolore da non aver forza e voglia di cucinare, ma perché in casa non può ardere nessun tipo di fiamma, in quanto i colori e il calore del fuoco, rappresentano l’essenza della vita e questa non può essere presente durante la veglia, quale momento invece di raccoglimento e dolore attorno alla morte.

Un’altra riflessione bisogna farla sul gesto di saluto e congedo, quello che chiamato “licenziamento”. Basterebbe vedere lo strazio dei parenti per astenersi da tale rito, ma la buona creanza vuole che si dichiari con una stretta di mano, un bacio, un abbraccio tutto il rammarico provato per la perdita appena celebrata. Dietro questo gesto però c’è anche un’altra motivazione, antropologica ovviamente. Chiunque abbia presenziato al lutto oppure assistito alla Messa, si è inconsapevolmente caricato della negatività della morte, e per potersi liberare da tale forza sfavorevole, deve scaricarla attraverso un elemento neutro, cioè il parente più prossimo del defunto. Si racconta che chi avesse voluto procurare o infondere del male a qualcuno, dopo aver assistito ad un funerale passava prima a salutare il proprio nemico, trasmettendogli quindi tutta la negatività della morte acquisita durante il lutto.

Infine bisogna fare un ultimo passaggio, le tradizioni calabresi sulla commemorazione dei defunti sono molto sentite anche in Cucina.

Come si sa, ogni ricorrenza, sacra o profana che sia, è caratterizzata da una specifica tradizione gastronomica, e così anche per la festa di Ognissanti e la celebrazione dei morti del 2 Novembre. L’origine e il significato di quest’usanza ci portano molto indietro nel tempo, si collega probabilmente ai culti greco-romani ed al banchetto funebre un tempo comune a tutti i popoli del bacino del Mediterraneo, in cui si ha ancora un ricordo nel “consulu” o “cunsulatu”.

Questa tradizione ha una doppia valenza: offerta di cibo alle anime dei defunti e offerta simbolica di dolci in forma umana oppure biscotti chiamati “Ossa di morto” (vedi foto), come raffigurante delle anime dei defunti, “in maniera che cibandosi di loro, è come se ci si cibasse dei trapassati stessi” e si vuole far apparire agli occhi dei più piccoli la morte non come evento tragico della vita ma solamente come un passaggio obbligato ma sereno che tutte le anime devono intraprendere. Tali biscotti chiamati in dialetto reggino “Ossa ri morti” di consistenza molto secca e di colore bianco e marrone, sono fatti con Zucchero, Farina, Albume d’Uovo, Acqua ed essenza di Chiodi di garofano.

C’è un altro dolce che rallegra le vetrine delle più belle pasticcerie di Reggio Calabria, è la Frutta Martorana (vedi foto), vere opere d’arte di Pasta di mandorla, che maestri pasticceri plasmano creando frutti difficilmente distinguibili dai reali. Questa sublime lavorazione nasce in Sicilia, precisamente a Palermo, presso il Monastero della Martorana, delle monache benedettine a cui era affidata la chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio (detta della Martorana). Era noto in città che le pie monache del Monastero fondato da Eloisa e Goffredo Martorana confezionavano frutta di pasta reale, cercando di imitare alla perfezione la natura. Una tradizione orale narra che in una circostanza imprecisata, le monache abbiano manifatturato frutta di qualità differenti e che l’abbiano appesa sugli alberi all’interno del piccolo chiostro del loro Monastero, per rendere omaggio al Vescovo in visita pastorale. I frutti entrarono così ben presto a far parte dei dolci dei morti ed in seguito alla soppressione delle corporazioni religiose avvenuto nel 1866, l’attività dolciaria del Monastero cessò ma per fortuna la specialità delle “nobili signore di Santa Maria dell’Ammiraglio” divenne patrimonio dei pasticceri della Sicilia e quindi anche di Reggio Calabria, che puntualmente ogni anno, continuarono e continuano ad arricchire di tradizione le vetrine delle pasticcerie.

Bibliografia utile all’argomento: Il ponte di San Giacomo, di Luigi M. Lombardi Satriani e Mariano Meligrana, Sellerio Editore, Palermo, 1996.

Se vuoi leggere una ricetta tipica della commemorazione dei morti, ecco il Torrone dei morti. Oppure altre tradizioni in cucina nella provincia reggina, Storia dei Cudduraci Biscotti pasquali di Reggio Calabria, clicca sui nomi.

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